giovedì 27 settembre 2012

Pattinatori sul ghiaccio



Cercò lavoro per tutto il mese di giugno, a luglio programmò le vacanze e nelle prime due settimane di agosto andò in ferie. Al ritorno in ufficio, ricevette la comunicazione del Presidente: il suo posto di lavoro non era più a rischio, il collega del piano superiore aveva appena dato le dimissioni e il posto vacante, ora, era suo. Quella sera si iscrisse a un corso di cucina per corrispondenza, prese in affitto un fondo commerciale di trenta metri quadrati e un mese dopo diede le dimissioni. Gliene chiesero il motivo, senza ottenere risposta. Troppe cose avrebbe voluto dire per accomiatarsi, ma preferì astenersi dai commenti e limitarsi a una calorosa stretta di mano.

lunedì 24 settembre 2012

Cambiare tutto, restare calmi


Bisognerebbe sempre ricordarsi che cambiare tutto, nella propria vita, è possibile. Cambiare tutto ciò che non ci piace. Conservare l'utile, disfarsi dell'inutile. E ricordarsi di restare calmi, non perdere la pazienza, mantenere la lucidità: altrimenti ogni opera di cambiamento può rischiare di rivelarsi il peggior incubo a occhi aperti della nostra vita. Ci sono gli imprevisti, poi, guai a dimenticarsene. Può capitare un febbrone, un lutto, la richiesta di aiuto di un amico in difficoltà. Per questo è fondamentale tenere a mente che la strada davanti a noi non è mai dritta, ma erta e tortuosa e disseminata di ostacoli. 


venerdì 7 settembre 2012

La battaglia soda


Leggi "La battaglia soda" e ti chiedi perché. Il Risorgimento, quello che comunumente viene definito come Risorgimento, è l'epoca in cui un piccolo staterello astuto e prepotente decide che è venuto il momento di crescere e diventare grande. Una storia che è tanto più bella quanto più si allontana dalla storia per entrare nell'intimità del protagonista, Giuseppe Banti, e che riesce a lasciarti senza fiato nella pagine in cui l'idealismo si scontra con la meschina realtà di una macchina-stato che sa tenere alla larga sovversivi e utopisti di ogni latitudine. 

martedì 31 luglio 2012

Arriva un giorno, e quel giorno sei tu

Arriva un giorno, e quel giorno sei tu, in cui le parole cominciano a scivolare una dietro l'altra, tutto sembra facile e, finalmente, niente sembra impossibile. Le parole, nei giorni migliori, zampillano dai polpastrelli prima che dagli occhi, e allora vorresti nasconderle al mondo, perché ogni parola, prima ancora che diventi parte di un discorso, è la spia di un segreto che ti porti dentro e nemmeno tu conosci fino in fondo. Forse per questo esiste la letteratura. Forse è questo che ti spinge a leggere. Forse, ammettilo, è per questo che non puoi smettere di scrivere.

Nostalgia


Sa cos'è la nostalgia ma non riesce a spiegarlo. La sola parola finisce per ammutolirlo. Però un esempio di quello che pensa possa essere la nostalgia sa farlo. Qualche volta, dice, gli capita di navigare su internet, o meglio di ritrovarsi su google, e lì, di fronte alla schermata bianca e indifferente del motore di ricerca, cominciare a digitare la parola franz kafka, o antonio tabucchi, o jose saramago, o ernest hemingway, insomma a ritrovarsi a fare affidamento su google, vedere se può aiutarlo a dargli qualche notizia di uno dei suoi scrittori preferiti, non osa ammetterlo ma la speranza è quella di trovare notizia che uno di loro possa aver pubblicato un nuovo libro, come se fosse possibile, per qualche imperscrutabile ragione che nemmeno lui vuole indagare, scrivere e pubblicare anche post-mortem, e il pensiero di una letteratura che non muore non lo abbandona, e dire che potrebbe leggere tutti i libri che ancora non ha letto dei suoi scrittori preferiti, forse lo farà, perché no, non tutti però, altrimenti al posto della nostalgia potrebbe subentrare la paura, una sconfinata paura di non avere più nulla da leggere dei suoi scrittori preferiti, e allora che fare, si chiede. No, una cosa è certa: non conviene leggere l'opera completa dello scrittore che si ama, meglio lasciarsi almeno un romanzo o una manciata di racconti da parte, per i giorni neri che tutti, presto o tardi, conosceremo, e allora non resta che fare affidamento su google, rileggere brani dei libri che più hai amato, e se proprio non riesci a resistere, sì, perché no, puoi ancora e sempre scrivere.

lunedì 30 luglio 2012

Rettitudine

L'avevano sentito tutti con le proprie orecchie, l'Assessore alle politiche industriali e allo sviluppo economico, sostenere che alla base della disaffezione della cittadinanza nei confronti della politica c'era un problema di educazione. L'Assessore si riferiva all'educazione in senso lato, come strumento per interpretare e partecipare attivamente alla vita pubblica di una città, uno strumento, a modo di vedere dell'Assessore, antiquato, sì, ma eminentemente efficace, in quanto né la scuola né la televisione hanno più la voglia e l'entusiasmo per spiegare ai ragazzi cos'è la politica e perché è giusto che ci seguano e parteggino per uno di noi. Uno dei suoi colleghi, o come si diceva un tempo compagni, sosteneva invece che alla base di tutto c'era un problema di informazione. Il che, replicava prontamente l'Assessore, è come dire la stessa cosa, visto che educare significa insegnare, e per insegnare qualcosa dobbiamo informare, cioè, come dice la parola stessa, dobbiamo dare forma all'informe dei nostri pensieri e così facendo attivare un processo di riordino mentale nella testa di chi ci ascolta, ossia il discente. Ora stai scendendo un po' troppo nei particolari, caro il mio Assessore, disse il collega. Invece no, ribattè l'Assessore, perché bisogna spaccare il capello in quattro se vogliamo riuscire poi a spiegarlo come si deve a chi ci sta di fronte. Il collega non sembrava convinto dell'asserzione dell'amico, ma preferì lasciare perdere e pensare ad altro, e così gli chiese cosa pensava di fare quella sera, se gli andava di accompagnarlo al mare, al che l'Assessore si inalberò e disse che così non andava, non poteva sviare il discorso solo perché lui era d'accordo, gli avrebbe mostrato come si educa un popolo, che venisse a casa sua, gli propose, e allora sì che avrebbe capito cos'aveva in mente per la prossima campagna elettorale e per i primi 100 giorni del proprio incarico se la cittadinanza, almeno questa volta, si fosse degnata di concedergli un'opportunità come Primo Cittadino!

Il collega, per la verità, preferiva il mare alla politica, ma non voleva dare un dispiacere al compagno e così disse che sì, accettava volentieri la proposta e che non era stata sua intenzione sviare il discorso, era solo stanco e il pensiero di un bel bagno in mare non gli dava requie, persino la notte se la sognava, una spiaggia deserta, l'acqua rinfrescante, il vento che lo asciugava e poi lo aiutava a trovare il sonno. 

un romanzo non è un romanzo

Un romanzo non è un romanzo perché in copertina campeggia la scritta romanzo e il giornalista definisce l'autore un romanziere.
 Un romanzo non è un romanzo perché la storia che leggiamo ha un inizio e una fine e personaggi con i quali finiamo per familiarizzare.
Un romanzo non  è un romanzo perché supera le cento pagine e i capitoli non hanno un titolo che li distingua l'uno dall'altro.
Un romanzo non è un romanzo perché tutti lo chiamano romanzo e lo paragonano ad altri oggetti narrativi catalogati sotto con lo stesso nome.

Un romanzo è un atto contronatura: voler raccontare tutto con la consapevolezza che tutto non è possibile dire: basti ricordare  le colonne d'Ercole del romanzo moderno, "Don Chisciotte" e "Vita e opinioni di Tristram Shandy": cos'altro sono se non un grandioso e spassoso tentativo fallito di dire tutto senza riuscire a farlo e proprio per questo rendendo l'esperimento una creatura narrativa nuova e mai fine a se stessa?
(Provare ad aprire un capitolo a caso di uno delle colonne d'Ercole del romanzo moderno e chiedersi in cosa lo distingua da un libro di racconti; oppure fare l'operazione contraria, leggendo dalla prima all'ultima pagina "I racconti di Pietroburgo" di Gogol e "Nel nostro tempo" di Hemingway e chiedersi perché non siano stati definiti romanzi).

Se i peggiori romanzi, infatti, sono proprio quelli che hanno la presunzione di raccontare un mondo compiuto e circoscritto, con un inizio e una fine e una morale intrinseca, i migliori sono quelli che vanno proprio nella direzione opposta: puntano a non dire nulla eccetto quello che mostrano, a diseducare il lettore e lasciargli intravedere una realtà a metà strada tra il sublime e lo spaventoso, tutt'altro che confortante ("L'educazione sentimentale" di Flaubert, "Il processo" di Kafka), o a dire troppo, mostrando l'inaudito, in un  una sorta di allucinato cortocircuito tra la realtà che conosciamo e la visione che ci viene filtrata dal narratore ("Viaggio al termine della notte" di Celine, "Tamburo di latta" di Grass, "Il Maestro e Margherita" di Bulgakov).

Ad ogni modo il mio romanzo preferito resta Bartlebly lo scrivano. Ricordo tutto della storia, le risate che mi provoca nelle prime pagine, i brividi di commozione che mi suscitano le ultime, il senso di spaesamento continuo che provo ogni volta che lo riprendo in mano e il senso di struggimento a lettura terminata: eppure se qualcuno mi chiedesse di quante pagine è composto, oppure che cosa rappresenta,  non saprei cosa rispondere!

Viavai - questa non è brezza ma ventilatore



D'estate, poi, a nessuno piace prendere l'autobus e andare al lavoro, eppure tocca farlo, specialmente se il cielo è di un azzurro impertinente e lungo la costa sfarfallano le bandierine di certe barche a vela che sembrano appena uscite da una cartolina della Bella Epoque, e poi, come non bastasse, tutti quelli che salgono e scendono dal bus hanno ciabatte e calzoni corti e una bella abbronzatura, e quindi, anche se non ti va, devi confessare di esserci rimasto solo tu, ormai, a portare i pantaloni lunghi e le scarpe coi calzini, ma va bene così, ti convinci che non c'è tempo migliore per stare in ufficio di quello in cui i colleghi sono assenti, i clienti smarriti, il telefono pressoché muto.   

mercoledì 4 luglio 2012

Nicola Puca (uno che passa di qui)

 Mi chiamo Nicola Puca. Sono nato il primo novembre del 1980 e per molti anni ho marinato la scuola e suonato la chitarra agli angoli delle strade con un cartello di cartone  appeso al collo che diceva: vi prego, ballate per me! Peccato che i miei concerti si tenessero di notte, e nella mia città, di notte, la gente dorme o, tutt'al più, guarda la tv o fuma una sigaretta al balcone. Suonavo di notte perché pensavo che sarebbe stato più suggestivo, e poi pensavo che, presto o tardi, qualcuno si sarebbe accorto di me e sarebbe sceso in strada a ballare e farmi i complimenti per le canzoni, le mie canzoni, sì, perché se c'è una cosa che mi ha permesso di superare l'adolescenza senza mai tirare il collo né ai professori né a mia madre, è stata la musica, o meglio, le parole che mettevo in musica e con le quali mi raccontavo delle storie, ogni settimana un po' più lunghe e complesse, finché un giorno ho deciso di lasciare la chitarra lì dov'era e provare a scrivere qualcosa senza pensare alla musica e al ritmo che ne sarebbe potuto scaturire. Le prime storie scritte senza musica erano lettere, iterminabili lettere che spedivo a ogni ragazza che mi faceva girare la testa, e funzionava, eccome se funzionava!, perché in fondo alla lettere scrivevo che io mi sarei fatto trovare il tal giorno alla tal ora nel tal posto, e ogni volta, quando io mi presentavo all'appuntamento, la ragazza era già lì, vestita di tutto punto, in una mano la mia lettera e nell'altra il mazzo di fiori che le avevo mandato qualche giorno dopo.  In quegli anni, a scuola, fingevo attenzione e buona condotta, e così facendo i professori mi lasciavano in pace, al punto da dimenticarsi di me, in maniera persino vergognosa, direi, come quando mi rimproveravano per un'assenza che non avevo fatto o una verifica che non avevo consegnato e allora io ero costretto a raccontargli, per dimostrare la mia onestà, cos'era successo a scuola quel giorno e com'era vestito il professore e quello che aveva detto e cosa era capitato di particolare al mio compagno di banco e a quello seduto davanti, finché vedevo il professore  sussultare e farmi segno con la mano di fermarmi: Va bene, va bene, hai ragione, Puca, devo essermi sbagliato, capita! E così posso affermare, con una certa sicurezza, di aver passato i primi vent'anni della mia vita a raccontare storie. Ai miei genitori, per farli tacere ogni volta che volevano mettermi in castigo; ai professori, per farli ricredere sulla mia condotta e tenere un atteggiamento più rispettoso nei mie confronti; alle ragazze, per convincerle a darmi un'opportunità e sentirmi, almeno per un giorno, il dongiovanni che mai sono stato e, credo, mai sarò; e a me stesso, per farmi compagnia quando nessuno dei miei amici aveva voglia di uscire e in tv non trovavo nemmeno un film degno di essere visto dall'inizio alla fine. Poi sono stato all'università, e dopo l'università ho insegnato italiano a stranieri, e dopo che quasi tutte le scuole nelle quali insegnavo hanno chiuso o non hanno più avuto stranieri bisognosi del mio italiano, mi sono chiuso in casa e ho cominciato a scrivere. Qualche traduzione di tanto in tanto, un po' di ripezioni e un paio di lezioni di chitarra a settimana, sono quanto mi basta per vivere senza l'aiuto di nessuno in questa soffitta nella quale riempio quaderni di storie vere e inventate, storie di un tempo lontano da me e storie di un tempo mai esistito o forse prossimo a esistere, chissà. Qualche volta trascrivo brani delle mie storie al computer e li mando a un mio amico che dice di tenere una specie di diario aperto a tutti, l'idea mi sembra buona, per me non ha nessuna differenza dove vadano a finire le mie storie, l'importante è che siano  messe in circolazione, da chi  e per chi questi non sono affari miei.  

MANUALE D'USO - LA TESSERA ELETTORALE (R.A.I.L.)




LA TESSERA ELETTORALE



Riporre la tessera elettorale (d'ora in poi TESSERA), unitamente a un documento d'identificazione in corso di validità, nella tasca posteriore dei pantaloni o, a seconda dell'abbigliamento, in uno uno zaino, un borsello o una borsetta, preferibilmente non troppo vistosi, assicurandosi che gli stessi siano muniti di cerniera o, meglio ancora, di cerniera e lucchetto.





 


  1. Camminare con fare vigile e guardingo: agli angoli delle strade, nascosti dietro i cassonetti dell'immondizia o nei pressi dei chioschi di giornali, loschi individui in doppiopetto e occhiali da sole stanno aspettando il momento opportuno per avvicinarvi con una richiesta qualunque per scipparvi la TESSERA. Per prevenire tali atti, arrotolare la TESSERA fino a renderla in tutto e per tutto simile a un manganello.
    Se l'occasione può fare il ladro, la prudenza può farvi sbirro: non abbiate timore di menare una manganellata in mezzo alle gambe del doppiopetto con gli occhiali scuri che osi avvicinarvi con fare mellifluo e accomodante, perché la tornata elettorale è l'unica occasione che avete per esprimere un'opinione, e dunque, ricordatevi: nessuno ha diritto a decidere al posto vostro!
2. Prima di raggiungere il collegio elettorale, fermatevi a contemplare il   muraglione di bellimbusti in doppiopetto, cravatta, farfallino, camicia nera, camicia rossa, camicia fantasia che annunciano all'intera cittadinanza i buoni propositi per il vostro futuro. Ecco un esempio degli illuminanti messaggi che potreste trovare sulla strada verso il voto: “No euro!”, “Sì, Italia!”, “Insieme per la città!”, “Per la tua città!”, “Una città per tutti!”, “Basta casta!”, “Mandiamoli a casa tutti!”, “Padroni a casa nostra!”, “Questa è la mia casa!”, “Pulizia e decoro!”, “Igiene, ordine e lavoro!”, “Io credo!”
A questo punto, passate a esaminare lo slogan in rapporto con la faccia, il busto o il mezzo busto del candidato sindaco, e chiedetevi a chi vorreste assomigliare di più. Ognuno di voi coltiva sogni irrealizzabili, e questo è il vostro momento: scegliete il vostro candidato e assumerete una nuova identità che vi accompagnerà per i prossimi cinque anni!
  1. Raggiungere il collegio elettorale al quale siete stati assegnati è facile. Il nome della circoscrizione o regione e del suo corrispondente collegio sono indicati nella pagina CIRCOSCRIZIONI E COLLEGI ELETTORALI, mentre l'esatta ubicazione della sezione sono indicati nella pagina denominata TESSERA ELETTORALE, sotto i vostri dati anagrafici, alla voce INDIRIZZO DELLA SEZIONE e ISCRITTO NELLA LISTA ELETTORALE DELLA SEZIONE N.
    Attenzione a non sbagliare sezione: dall'apertura del seggio elettorale avete solo 48 ore di tempo per recarvi presso il vostro collegio elettorale e indicare con una preferenza a quale persona sognate di assomigliare al punto da volergli affidare il potere di decidere, per i prossimi cinque anni, quello che è giusto e sbagliato per voi senza nemmeno avervi prima consultato!
  1. Rispettare la coda senza arrecare disturbo agli elettori con inutili discussioni sul tempo o sulle proprie simpatie in merito agli slogan e ai busti e mezzibusti di cui vi siete riempiti gli occhi. Per evitare spiacevoli attriti con chi vi precede o segue in coda è utile avere con sé uno o più paia di tappini per le orecchie, concentrarsi sul nome del candidato prescelto e non agitarsi troppo.
    Quando l'elettore che vi precede avrà ritirato i documenti richiesti dagli scrutinatori e avrà varcato la porta d'ingresso del seggio elettorale, potrete ritenervi autorizzati a entrare nella stanza e procedere alle operazioni richieste per esercitare il vostro diritto di voto. Uno scrutinatore vi consegnerà lapis copiativo e scheda elettorale, indicandovi con ampio gesto delle braccia e voce stentorea il numero della cabina elettorale presso la quale recarvi. Non profferite parola né fate gesti equivoci, pena intervento delle forze dell'ordine e sospensione temporanea del vostro diritto di voto.
  1. Nella cabina elettorale siete soli con il lapis copiativo e la scheda elettorale. Non fate confusione: impugnate il lapis in una mano e con l'altra disponete la scheda elettorale davanti a voi. Non lasciatevi prendere dalla fretta qualora non riusciste a trovare subito il nome e il simbolo del candidato prescelto: potete trovarlo solo con un po' di fortuna e sangue freddo, a non tutti riesce, fatevene una ragione. La cosa più importante è che non vi attardiate troppo nella cabina: il presidente di seggio potrebbe venire a chiedervene spiegazione, per l'imbarazzo vi trovereste senza una valida giustificazione e, in men che non si dica, potreste ritrovarvi sulle pagine di tutti i quotidiani locali, una barzelletta vivente, un monito al tempismo e al decisionismo applicato alla politica.
    Perciò è bene avere le idee chiare, prima di entrare nella cabina, oppure non averle affatto e compiere il proprio dovere tracciando una X su uno dei tanti simboli e nominativi presenti sulla scheda elettorale: dare il proprio contributo e scegliere qualcuno che possa farvi sognare il sogno di detenere il potere è un'esperienza troppo esaltante per non provarla fino in fondo!
Quando a distanza di giorni sarà finalmente noto l'esito delle elezioni, non chiedetevi quanto il vostro voto possa essere stato determinante e se il candidato scelto avrà un pensiero per voi. Ciò che più conta è questo: decidere avete deciso, ora lasciate che siano gli altri, i vincitori, a continuare a farvi sognare il sogno di una politica che riguarda tutti e coinvolge tutti, a condizione di avere una tessera elettorale e un documento d'identificazione in corso di validità.
                      R.A.I.L.
                      Real Absurda Iconolastica Letteratura
























Knock-out


Soriano bada al sodo. Destro, sinistro, destro, sinistro, dritto: knock-out! Cortazar diceva che i racconti vincono al knock-out, e come è vero, mi dico, ogni volta che mi imbatto in qualche scrittore che sa far viaggiare le storie sui binari della rapidità e incisività, pochi per la verità, per questo è sempre bene tornare a chi, il racconto moderno, lo ha inventato, ossia Kafka, Hemingway e Borges, la triade che è andata a lezione dei padri fondatori del racconto classico (Cechov, Gogol, Maupassant e Hoffmann) e ha saputo ripartire da dove la lezione era stata interrotta. Dopo H.B.K. il racconto ha continuato la sua storia vivendo di alterne fortune,  condizionato dall'editoria e dal pubblico del posto, basti pensare agli Stati Uniti o a molti paesi latino-americani, dove il racconto non ha mai sofferto del  complesso di inferiorità nei confronti del romanzo, mentre altrove, per esempio in Italia, nonostante una tradizione di primissimo livello (da Boccaccio a Buzzati, passando per Pirandello, Pavese e Fenoglio), un libro di racconti viene sempre vissuto come un oggetto anomalo, inclassificabile, inattuale e, quindi, ai limiti dell'incomprensibile. Questo per dire che leggere Soriano fa bene, perché Soriano ti porta sul ring e l'incontro finisce prima ancora che tu possa rendertene conto. Saranno i dialoghi al fulmicotone, la rapidità con la quale passa da una scena all'altra, gli attacchi che ti lasciano senza fiato ("Hai degli infiltrati", disse il commissario. "Degli infiltrati? Qui lavora soltanto Mateo e sono ventiquattro anni che è nella delegazione" "E' un infiltrato. Dammi retta, Ignacio, sbattilo fuori perché ci saranno casini.") e dai quali non puoi sottrarti, sarà tutto questo e molto altro (poca psicologia, sarebbe piaciuto a Kafka, e una capacità di mostrare solo lo stretto necessario, come predicava Hemingway), ma leggere Soriano fa bene per capire cos'è un racconto  e in che modo uno scrittore possa riuscire a dare il meglio di sè con quella che è la creatura letteraria più anomala che esista, il cosiddetto racconto lungo, che solo in rari casi riesce a mantenere tutte le qualità tipiche del racconto senza snaturarsi o perdersi per strada. In "Quartieri d'inverno" c'è   maestria, sfrontatezza, prepotenza e levità Ogni capitolo è uno scatto repentino, una freccia scagliata in cielo, un salto in alto: il mio preferito è il capitolo tredici, perché lì Soriano riesce a fondere comicità e struggimento in una cosa sola, un capitolo che si potrebbe isolare e inserire in una ipotetica "antologia del racconto d'amore folle".

mercoledì 20 giugno 2012

La morte di Carlos Gardel

La sensazione è quella di trovarsi in mezzo a una piazza spazzata dal vento, una sterminata piazza nella quale succede di tutto, c'è un gran trambusto, stormire di fronde, rumore di passi, clacson e voci che si sovrappongono, molte voci, alcune in presa diretta, altre che appartegono a un passato più o meno remoto, e poi un affastellarsi continuo di oggetti davanti agli occhi dei protagonisti - oggetti più o meno comuni, come il mazzo di carte del nonno o il rumore degli alberi fuori dalla finestra o la boccetta di profumo del padre di Alvaro -, e oltre agli oggetti ci sono i pensieri dei personaggi, pensieri sempre in balia degli eventi, e quindi, proprio per questo, un ininterrotto andirivieni  di ricordi sensazioni desideri rimpianti, impossibile volerli trattenere, nulla in questo libro puoi trattenere e ingabbiare, tanto meno la voce dei protagonisti, perché si tratta di un libro in cui sono tutti protagonisti e nessuno è comprimario, sì, qualcuno più presente degli altri c'è, ma nulla di rilevante, ed è proprio questo a rendere questo libro una sorta di fantasmagoria perenne, il fatto di scaraventare il lettore dentro un turbinio di storie che definire romanzo appare una forzatura, anche dopo averne letto un centinaio di pagine la sensazione è quella di trovarsi tra le mani  una pirotecnia narrativa che comincia con un nano che parla di calcio per proseguire con un vecchio alla prese con il rimorso e con un uomo che commette gli stessi errori che il padre aveva commesso con lui. Voltare pagina è un azzardo, come ritrovarsi sul ciglio di un burrone e lasciarsi scivolare giù: la corsa può durare minuti, oppure ore, il bello è che la corsa non è mai in verticale, da un punto A al punto B, vita morte e miracoli di taldeitali, ma in orizzontale, come un vortice gentile che ti prende e ti fa viaggiare a lungo con sè. 

giovedì 14 giugno 2012

Precipitare dentro un vuoto chiamato nulla (fingere che tutto vada bene)


"Il lavoro stesso è ogni giorno di più a rischio..."
E' difficile, ammettiamolo, concentrarsi sul lavoro, mostrarsi aperti, disponibili e propositivi con i colleghi e con i clienti, quando il lavoro stesso è ogni giorno di più a rischio, quando le tue funzioni, quelle che un giorno ti facevano identificare con il tuo lavoro e ti permettevano di parlarne quando qualcuno te lo chiedeva, le mansioni che trovi ancora scritte sul mansionario ma che nella pratica non ci sono più, quando il lavoro, l'unico lavoro serio e pagato che hai fatto nella tua vita, assomiglia ogni giorno di più a un fantasma.  In questi casi bisogna tenere duro, si dice, afferrarsi a quel poco che resta del lavoro di un tempo e convincersi che tutto vada bene e che un giorno, presto o tardi, tutto cambierà, in un verso o nell'altro, tutto cambierà e la tua vita prenderà una forma che speri possa essere un po' più definita di quanto sia ora. Se fossi un operaio, ti direbbero di restare alla catena di montaggio ad accendere e spegnere le macchine in attesa che i Dirigenti decidano cosa vogliano fare della Ditta. Purtroppo, però, questa non è una ditta, qui si erogano servizi, e tu stesso, lo sai, costituisci un servizio per la struttura, e come tale devi essere presente,  altrimenti la qualità generale del servizio decade, e con quella la credibilità e l'operatività stessa di tutti gli altri tuoi colleghi. Pochi colleghi, tanti problemi, dici, ma nessuno sembra prenderti sul serio, c'è così tanto da fare che nessuno dei tuoi colleghi, così pochi da poterli contare tutti sulle dita di una sola mano, nessuno di loro, dicevamo, può dedicarti più di cinque minuti, il tempo per andare e tornare dal distributore automatico e sfumacchiarsi una sigaretta. I tuoi colleghi parlano di lavoro, tu taci e aspetti che loro abbiano finito di parlare per rientrare in ufficio e proseguire, tra una pratica e l'altra, nella ricerca di un nuovo lavoro, qualunque esso sia, purché ti permetta di metterti in salvo prima che il Presidente ti comunichi la necessaria interruzione del rapporto di lavoro per cause indipendenti dalla sua e dalla tua volontà. Potresti licenziarti, ti aiuterebbe a sentirti protagonista dopo anni passati a vivere all'ombra dei colleghi, protagonista per pochi minuti, forse, il tempo di consegnare la lettera di dimissioni e salutare i colleghi. Il problema, però, è un altro, e tu lo sai bene. Licenziarsi significa non prendere un centesimo finché non avrai un lavoro, mentre essere licenziati è tutt'altra musica, più traumatico, forse, dal punto di vista psicologico ma molto meno da quello remunerativo, visto che, al momento, esiste ancora una forma di indennità di disoccupazione per coloro che hanno perso il lavoro. E siccome tu il lavoro ce l'hai, e puoi perderlo, sì, e con quello usufruire di uno di quegli ammortizzatori sociali di cui ha sempre sentito parlare,  licenziarti, al contrario, significherebbe fare un salto nel vuoto, significherebbe precipitare rischiando di farti male senza nessuno che possa aiutarti. Qualche volta pensi che finirai per smettere di andare al lavoro per noia, o depressione, o qualche strano male legato a quella costante sensazione di prigionia che provi ogni volta che metti piede nell'ufficio e devi accendere il computer.   








martedì 12 giugno 2012

Un padre



"E' venuto qui per sapere chi è suo figlio..."
 
Il padre ha la faccia scavata e i capelli corti e bianchi. Gli dico di sedersi, ma sembra non sentirmi, ha fretta di parlare e dirmi tutto quello che lo ha portato a venire qui, all'università, per sapere quanti esami ha superato suo figlio, con che voto e quando, insomma, per quanto possa sembrare folle, così dice, è venuto qui per sapere chi è suo figlio e cosa deve fare per riuscire a dormire la notte senza avere gli incubi. Sarebbe meglio non averli, provo a dire, ma il padre ribatte che lui è una persona senza scheletri nell'armadio, con un passato da centometrista alle universiadi e tutta una vita passata a lavorare e accudire la madre malata. Ma non è di questo che voglio parlarle, mi dice il padre, la questione è che mio figlio, ora, mentre io sono qui a parlarle di me e delle mie preoccupazioni e della conseguente insonnia che non mi dà pace da più di un mese, mio figlio, dicevo, è a letto a dormire. Capisce? Ora lei penserà che mio figlio è uno di quelli che fa tardi la sera, a ballare in discoteca o al pub con gli amici, e forse, se devo dirla tutta, anch'io vorrei che fosse così, perché sarebbe tutto più semplice, più comprensibile, più logico, invece no... Mio figlio, dice il padre, passa le serate al telefono con la fidanzata, chiuso in camera, attacca a parlare alle nove, nove e mezzo, e vanno avanti a parlare, o forse dovrei dire a dibattere, per due, tre ore, perchè quando io vado a letto, tra le undici e mezzanotte, lo trovo a letto con il cellulare sul cuscino e la tv accesa a volume bassissimo. In quei momenti, sa, vorrei tanto prenderlo tra le mie braccia, scuoterlo e chiedergli cosa ha fatto tutto il giorno e cosa pensa pensa di lui quella sua fidanzata che ancora non si è degnato di farmi conoscere, ma poi desisto, spengo la tv e chiudo la porta e rimando tutto al giorno successivo, anche se so che così non otterrò nulla, e che nulla cambierà finché non sarò io, questa volta, a mettere le cose in chiaro e obbligare mio figlio a dirmi tutto e capire in che modo la sua inettitudine sia una conseguenza mia e di mia moglie. Ma questa è un'altra storia, mi dice il padre, e ora è meglio che non le faccia perdere altro tempo e che me ne vada, ho già capito che lei non può o non vuole aiutarmi, e forse, lasci che glielo dica, è meglio così, io volevo venire quassù per sapere chi è mio figlio, lei mi dice che non ne sa nulla e che anche se lo sapesse non potrebbe dirmelo per non violare la legge, e allora io le dico che questo mi è bastato, sapere che qui non è mai venuto e che anche se fosse venuto per lei sarebbe indifferente quanto la mia molesta presenza in questo momento. Il padre uscì sbattendo la porta, non feci in tempo a raggiungerlo in strada che lui era già salito in sella alla bicicletta e stava andando contromano, dritto contro una macchina che in quel momento sfrecciava davanti ai nostri uffici, chiusi gli occhi e lo stridore dei freni fu interminabile, dura ancora adesso, ogni volta che qualcuno mi incontra per strada e mi chiede cosa aspetto a farmi una famiglia e diventare padre.

lunedì 11 giugno 2012

La mia vita di uomo

Si sa, Philip Roth è uno scrittore viscerale. Scrive delle viscere dei propri personaggi, e per farlo lascia schioccare la frusta: sembra di sentirla muovere l'aria ogni volta che una frase prende velocità; allora cominci a seguirla, gli occhi le vanno dietro con fare servile e l'impressione è quella di assistere, da un momento all'altro, a un formidabile schianto. Uno schianto tanto stilistico quanto concettuale. Una storia che possa disintegrarsi davanti ai tuoi occhi. Ma quello che capita è proprio il contrario: nel momento stesso in cui sei sicuro che la prosa finirà per sfracellarsi contro un muro di indicibilità,  lì Philip Roth dà una sterzata e la narrazione, improvvisamente, diventa qualcos'altro, come un pugno sferrato a una tale velocità da non riuscire a vederlo ma solo ad avvertirlo, come una palla da tennis che ti colpisce allo sterno, ti mozza il fiato e contro la quale tu non puoi fare nulla, perché c'era, sì, ma forse anche no, perché ora che la cerchi non riesci a trovarla da nessuna parte, c'è da diventare pazzi, meglio rinunciare. Capitano spesso momenti simili, ogni volta che si decide di immergersi in un libro di Philip Roth.  E "La mia vita di uomo" è una trottola che si avvita su se stessa senza mai perdere velocità, equilibrio, vigore, bellezza. Se dovessi riassumerla in poche parole direi che è la storia di un uomo ossessionato dalla letteratura  che finisce lui stesso per essere il protagonista di innumerevoli vicende romanzesche e dalle quali sa che non potrà mai liberarsi, perché la letteratura non conosce limiti mentre la vita, quella vita che conosce così bene per averla letta nelle pagine dei grandi scrittori dell'ottocento, la prosaica, banale e faticosissima vita di tutti i giorni, finisce per essere materiale letterario, più o meno buono, l'ardua sentenza a chi si cimenterà nella lettura.

venerdì 8 giugno 2012

Forse, un giorno

 Forse, un giorno. Oggi no. Domani? Chissà! Un giorno, però, sì... un giorno troverò il tempo per farlo, e lo farò come si deve, e se nessuno mi fermerà, allora finalmente saprò cosa volevo tanto fare da non riuscire nemmeno a più a chiudere occhio la notte al solo pensiero di non riuscire a farlo per tempo. 

Presidente

Il Presidente passò tutta la mattina ad ascoltare le osservazioni dei propri dipendenti. Li accolse uno ad uno nel proprio ufficio, e senza profferire verbo li congedò con la promessa di ponderare le richieste e fargli pervenire una comunicazione scritta in merito alle mansioni che avrebbero dovuto svolgere. Poi chiuse l'ufficio, andò in bagno e lì vi rimase fino al mattino dopo.
Nessuno seppe mai nulla di questa strana vicenda fino al giorno della sua morte, quando uno dei figli, il maggiore, lesse l'agenda del padre, quella dell'ultimo anno, trovando una sola pagina bianca, quella corrispondente alla notte che passò lontano da casa e della quale non volle mai parlare. 

giovedì 7 giugno 2012

Austerità



"Una buona pratica per capire l'economia..."

Una buona pratica per capire l'economia, pensò, è quella di guardarsi in casa, fare due conti e tirare le somme. Una pratica banale, forse, ma efficace, se consideriamo che l'espressione "taglio del debito pubblico", di cui tanto sentiva parlare in tv e alla radio, era qualcosa che lo riguardava in prima persona, e non poco, visto che dall'inizio dell'anno il conto in banca, già dalla metà del mese, era in rosso, e se un debito cominciava ad avvertirlo, era quello verso il proprio gruzzoletto, dal quale attingeva sempre più spesso, almeno ogni due settimane, un gruzzoletto con il quale sperava di comprare un paio di mobili il giorno in cui avesse comprato casa, una cifra irrisoria, a dirla tutta, e proprio per questo ancora più vulnerabile e facilmente estinguibile. Come difenderlo, allora? La prima cosa da fare, era tagliare gli sprechi. Più o meno quello che tutti gli italiani, le tv e i giornali reclamavano a gran voce nei confronti dei politici da anni e che finora non aveva ancora prodotto risultati concreti sul piatto della bilancia pubblica. Gli sprechi c'erano, e un immediato cambio di regime, sì, forse avrebbe portato una salutare "boccata d'ossigeno" (altra espressione presa in prestito dai giornalisti) al bilancio mensile, anche se solo quello, lo sapeva, non sarebbe bastato a impedirgli un "dissanguamento del tesoretto" e un rapida discesa verso uno stile di vita più gramo del solito. Eliminati gli sprechi, c'era ancora molto lavoro da fare. Le voci del bilancio lo guardavano con fare minaccioso: l'affitto non si poteva toccare, e così per le bollette, se consideriamo che il riscaldamento era centralizzato, l'acqua e la luce venivano usate con parsimonia, e anche il gas,  era usato solo per cucinare e nulla più. Restavano le spese per il vitto, da contenere nei limiti del necessario, e i prelievi al bancomat, da regolamentare nella maniera più rigida possibile, a costo di qualche rinuncia, malumore o broncio che sia. A cominciare da subito. A lui la responsabilità del bilancio, una rogna che avrebbe voluto evitare, che forse poteva ancora evitare se la moglie avesse trovato un lavoro, ma che certamente lo riguardava in prima persona, visto che era lui a detenere il bancomat, lui a fornire alla moglie i soldi per fare la spesa, lui a dire sempre che dovevano fare attenzione senza riporne lui stessa a sufficienza al momento di andare al bancomat a prelevare perché il portafoglio s'era alleggerito (quante volte, negli ultimi mesi, aveva dovuto dire alla verduraia o al giornalaio: "Scusi, ma sono rimasto senza contanti! Corro al bancomat e torno!"), senza fare troppi calcoli, senza troppi pensieri, senza mai considerare che l'espressione austerità, presto o tardi, avrebbe finito per coinvolgerlo e cambiargli la vita.

martedì 5 giugno 2012

Maltempo


Era uscito di casa in camicia, senza nemmeno fare colazione o lavarsi la faccia, scapicollandosi giù per le scale senza mai perdere di vista l'orologio, quelle lancette non la smettevano di correre, se riusciva a prendere subito l'autobus faceva a tempo a fermarsi in un qualche bar per un caffé, altrimenti avrebbe dovuto vedere cosa gli riservava la distributrice automatica dell'ufficio. Ma il problema, ora, era di tutt'altra natura. Veniva già una pioggia battente, e lui non aveva tempo per tornare indietro a mettersi una giacca, l'unica cosa che poteva fare era quella di prendere l'ombrello e con quello ripararsi come poteva fino alla pensilina del bus. Arrivò in strada e si vide passare davanti l'autobus, imprecò contro la pioggia e il vento, valutò se rifugiarsi in un bar, andare dritto alla fermata oppure passare dall'edicola per prendere il giornale. Il bar, no, quello era meglio lasciarlo perdere, visto che il prossimo autobus era l'ultimo per arrivare in tempo al lavoro, però il giornale poteva prenderlo, e così arrivò alla pensilina con il giornale sotto braccio e la camicia bagnata e la testa piena di pensieri nefasti, primo fra tutti il pensiero di qualche altro malanno che lo avrebbe costretto a casa per chissà quanti giorni, un'altra giustificazione da fornire al lavoro, altre giornate da passare sdraiato a letto o sul divano senza la minima voglia di alzare un dito o fare qualcosa di piacevole, eccetto dormire o guardare le nuvole in cielo. L'autobus era affollato, tutti avevano fretta, come se la pioggia potesse appesantire i movimenti delle persone e delle macchine e rendere la vita stessa un peso da scrollarsi di dosso prima di restarne schiacciati sotto.
Il resto della giornata passò sotto il segno dell'emicrania e del mal di stomaco, ogni occasione era buona per andare in bagno, liberarsi l'intestino, lavarsi la faccia e darsi un contegno più presentabile. Le ore non passavano mai, guardare lo schermo del pc gli provocava nausea, e anche gli occhi facevano fatica a restare aperti, e allora guardava l'orologio e si convinceva che presto sarebbe stato a casa, tempo di scendere la scalinata e salire in autobus e sarebbe arrivato a casa, si sarebbe rifugiato in camera da letto, la serranda abbassata, forse avrebbe dormito, forse no, ad ogni modo il silenzio, il buio e l'immobilità gli avrebbero fatto bene, presto tutto sarebbe tornato al suo posto, la miglior medicina è il tempo, si ripeteva sempre in questi casi, chiudi gli occhi, riposati, tutto passa, aspetta e vedrai. 

mercoledì 30 maggio 2012

Ora

Ora la salute va meglio, e così anche per la moglie e la bambina, la prima ha solo un po' di tosse, la seconda è tornata all'asilo, in compenso il cielo è magnifico e la temperatura comincia a salire, le camicie è meglio portarle a maniche corte, il libro che legge da un mese ancora non è finito, manca poco, una trentina di pagine, oggi potrebbe essere il giorno buono per riporlo nello scaffale e sceglierne un altro, il tempo per leggere è sempre così poco, il tempo di salire e scendere dal bus e la pausa pranzo, se poi ci mettiamo la lettura del giornale, che gli porta via almeno mezz'ora, il calcolo è presto fatto, tempo ne resta pochissimo, venti minuti nei giorni peggiori, quaranta in quelli più fortunati. Ora è al lavoro, ancora un'ora e si fionderà in città per sbrigare alcune faccende che spera non lo impegnino troppo, cose come la consegna del 730 e la richiesta di un certificato ISEE da portare all'asilo, se tutto va bene potrà andare al parco e sedersi dieci minuti a leggere il romanzo di Yehoshua, un intervallo di tempo che potrebbe durare di più, se non fosse che a casa lo aspettano la moglie e la bambina, la prima ossessionata dal proprio peso e la seconda dalla scoperta di un mondo che sembra non smettere mai di riservarle sorprese, tornare a casa è bello, insomma, quando arriva il momento di entrare e si sente la bimba abbracciarti le gambe e baciare lo zaino e la moglie baciarti sulle labbra e dirti che è tutto pronto, non senti che profumino?   

Esercizio di superamento della morte: forever young

"Quei libri decise di lasciarli lì dov'erano..."

Dal giorno in cui seppe della sua morte, non si diede per vinto: i libri che aveva comprato e non ancora letto, i libri di quello che riteneva il suo scrittore italiano del cuore, quei libri decise di lasciarli lì dov'erano, una sbirciatina di tanto in tanto era più che sufficiente per continuare ad alimentare l'illusione che lo scrittore, almeno quello, sarebbe sopravvissuto alla morte, quella maledetta, la Grande Intrusa,  che aveva sorpreso tutti, perlomeno quelli che come lui non avevano avuto il piacere di conoscerlo e che continuavano a cercare sue notizie nelle pagine culturali dei giornali e tra gli scaffali delle novità delle librerie e che non potevano rassegnarsi a quelle pagine commemorative con le quali scrittori e giornalisti lo liquidavano per sempre, senza sapere che in realtà, lo scrittore, sarebbe sopravvissuto a qualunque funerale, coccodrillo e commemorazione, perché le storie nascono ogni volta che qualcuno decide di leggerle, e quanto a morire, no, non muoiono mai, al massimo vanno in letargo, giusto il tempo per mantenerle giovani per sempre. 

About Philip Roth

 
"Quando è cominciata la mia storia con Philip Roth..."

Sono un po' di giorni che adocchio i libri di Philip Roth che riposano nella mia libreria in attesa di venire scelti e letti. E così questa mattina mi sono chiesto quando è cominciata la mia storia con Philip Roth. Vediamo. Ho scoperto l'esistenza di uno scrittore chiamato Philip Roth ai tempi dei primi anni di università. Era stata la copertina ad attrarmi - il disegno pop e anche un po' kitsch di un seno -, e il titolo: lamento di portnoy. Lessi le prime righe, e subito decisi di acquistarlo. Poi uscii dalla libreria e continuai a leggerlo alla fermata del bus, e poi a casa, prima di cena e dopo cena (fosse per me avrei continuato a leggerlo anche durante la cena, ma in quei giorni ero tornato dai miei genitori e non credo che a loro sarebbe andata a genio l'idea di cenare in compagnia di un libro), e così i giorni a seguire, finendo per sentirmi talmente affine con il personaggio di Portnoy da chiedermi se nella mia famiglia, da qualche parte remota nel nostro sperduto e sommerso albero genealogico, ci fosse qualche goccia di sangue ebreo. Che io sappia no, e dato che indagare sul passato della mia famiglia non è mai stata un' avventura nella quale volessi andarmi a cacciare, ho smesso di pensarci e ho continuato a leggere il libro fino all'ultima pagina, chiedendomi, mano a mano che le pagine scorrevano e la parola fine s'approssimava, quale sarebbe stato il prossimo libro di Pihilip Roth che avrei potuto leggere. Avevo sentito parlare molto bene di "Pastorale Americana" e così deciso di acquistarlo, ma il libro finì dritto dritto nello scaffale della mia libreria e non lo ripresi più in mano per molti anni - e il motivo è presto detto: nelle letture sono un poligamo alla massima potenza, so essere fedele a uno scrittore per uno, due libri, dopo di che la curiosità di andare a ficcare il naso dentro qualche altro scrittore è più forte di me, e così abbandono lo scrittore appena letto con la promessa di tornarci quanto prima, appena finito di scoprire quest'altro scrittore, e forse anche quell'altro, ecc. Insomma, gli anni sono passati, l'università l'ho finita, e quando decido di tornare su "Pastorale Americana" ne leggo le prime 30 pagine e lo ripongo con la promessa che presto ci sarei tornato, quando fosse stato il suo momento, perché si sa, ogni libro non è mai lo stesso, cambia, a seconda del lettore e, soprattutto, del momento nel quale il lettore decide di leggerlo. Più o meno in quello stesso periodo decido di andarmi a leggere un libro smilzo e agile di Philip Roth, con una copertina piuttosto simile a quella del "Lamento di Portnoy", ancora una volta un seno, questa volta ritratto in fotografia, questa volta meno colorato e divertito e decisamente dai toni più drammatici, insomma, un buon viatico per un romanzo di Philip Roth, tanto più che anche questa volta, fin dalle prime pagine, sentii che la storia mi bruciava i polpastrelli e le pagine volavano via una dopo l'altra con una velocità sorprendente. Il titolo, al quale non feci molto caso, era "L'animale morente", uno dei pochi romanzi che abbia letto due volte nel giro di uno stesso anno, la prima volta per sapere com'era, la seconda per capire in che modo era quello che era. La seconda lettura si rivelò più entusiasmante della prima, e con quella prosa nelle orecchie scrissi un racconto di cui andai fiero e che piacque enormemente a un editore, e forse fu per quello che da allora non ho più letto nulla di Philip Roth che riuscisse a piacermi tanto, e sì che ho letto "Everyman" e "Il seno" (eccolo, ancora una volta, il seno, in copertina e nel titolo e nelle vesti del protagonista del racconto) e, ancora una volta, più o meno con gli stessi risultati della prima lettura, "Pastorale americana". Bene, ora credo che sia tornato per me il momento di prendere in mano uno dei libri che sonnecchiano nella mia libreria, e da lì ripartire il viaggio allucinante dentro l'universo dello scrittore che più di ogni altro riesce a farmi venire voglia di finire presto di lavorare o mangiare o fare alcunché non mi permetta di sedermi da qualche parte a leggere senza pensare ad altro che a vedere come va a finire.  

martedì 29 maggio 2012

Sensi di colpa

Anche peggio. Per esempio: come spiegare il fatto che nel giro di una settimana avesse deciso di comprare un biglietto per Nairobi, annullarlo, comprarne uno per Milano, prenotare l'albergo, scegliere un volo per Madrid, riconciliarsi con la moglie, passare più tempo a leggere il giornale, meno a leggere libri, scrivere con la solita incostanza, ammalarsi e guarire e lasciare perdere i vecchi sogni di gloria legati a un concorso per il quale studiava da due anni, e in tutto questo viavai di decisioni prese e abbandonate non s'era mai sentito, nemmeno una volta, in colpa per la scelta che, in quel momento, gli sembrava la migliore per sè. C'erano stati giorni in cui il solo pensiero di compiere un gesto come comprare un biglietto aereo o prenotare un albergo, potevano atterrirlo e impedirgli di fare alcunché, eccetto fissare lo schermo del pc, gli occhi sbarrati, chiedendosi cosa fare  e perché e quando. E c'erano stati altri giorni in cui ogni decisione presa che potesse in qualche modo modificare il corso della propria vita - il che significa anche prendere un autobus o sedersi su una panchina - poteva finire per diventare un pensiero fisso che lo arrovellava per il resto della giornata. Ora non era più così, e forse era un bene, anche se il pensiero di un cambiamento simile non gli faceva dormire sonni tranquilli, tutt'altro. 

martedì 28 febbraio 2012

Diario di un diario


  Renato decise di tenere un diario. Lo aveva visto fare nei film, e gli sembrava una buona idea per avere qualcosa da mostare ai figli quando fosse stato vecchio e demente e senza più nulla d'interessante da dire.   Scelse un bel quaderno con la copertina blu, senza illustrazione né scritte. Una cosa semplice e onesta. Qualcosa che potesse resistere alle mode e ai capricci del tempo e che potesse assomigliare molto a una dichiarazione d'intenti. Aprì il quaderno sulla prima pagina e decise che no, così non andava, perché un diario aveva bisogno di spazio, e così passò alla seconda pagina. Ma nemmeno la seconda pagina gli andò bene, perché lì avrebbe dovuto scriverci l'indice, si disse, non poteva dimenticarsi l'indice. E così decise di passare alla terza pagina. Peccato che la terza pagina mostrasse una macchiolina in alto a destra, quasi la traccia di una zampa di gatto, niente di obbrobrioso se non fosse che un esordio, tanto più quello di un diario da tramandare ai posteri, aveva bisogno di uno spazio, come dire, immacolato. Alla quarta pagina si arrestò, tirò un sospiro di sollievo e scrisse la data, ma subito dopo averla scritta venne colto da un dubbio atroce. Era sicuro che la data con la quale aveva esordito fosse quella giusta?Corse a prendere il quotidiano, verificò la data e tirò un pugno così forte contro la scrivania da provocare la caduta del portapenne. Strappò la pagina e riscrisse la data. Poi si chiese quale formula avrebbe voluto utilizzare, caro diario, il nome della città, una sigla. Optò per la parola OGGI, scritta a caratteri cubitali, seguita da due punti, a capo, trattino. Poi decise che oggi non era il giorno migliore per cominciare e così passò alla pagina successiva, decretando che quella dicitura avrebbe rappresentato il frontespizio del diario, il frontespizio con un titolo semplice, evocativo e un po' infantile.

   OGGI:
    - 

  Quando dieci giorni dopo Renato riprese in mano il diario, si disse che quello che avrebbe dovuto distinguere il suo diario sarebbe dovuta essere la sinteticità. Era primo pomeriggio, e a ripensare a tutto quello che aveva visto o fatto non sapeva da che parte cominciare. Niente di significativo, il solito tran-tran quotidiano, ovvero colazione lavoro pranzo, o meglio: colazione con sottofondo di radio ricerca affannosa dei vestiti un bacio a moglie e figlia autobus ufficio mail ricevute mail da evadere telefonate telefonate telefonate saluti ai colleghi corsa a rotta di collo verso la rosticceria pasta al pesto acqua caffé autobus ufficio. Un po' telegrafico, stilisticamente parlando, poteva migliorare, però cos'altro c'era da aggiungere a una giornata che anche a volerla esaminare sotto tutti i punti di vista non mostrava nulla di nulla di degno di nota? Il giorno dopo ci riprovò, e questa volta decise di unire l'analisi alla sintesi e di concentrarsi su dei singoli momenti della giornata. Pensò al momento del risveglio. Ci pensò per tutto la mattina, finendo per rispondere scempiaggini al telefono ("Non sa dove siamo? Mmm... Vorrei tanto saperlo anch'io...") e passare lunghi momenti davanti alla finestra, le mani in tasca, le spalle curve, gli occhi fissi davanti a sè.  


    

 

Umberto

"Era un po' di tempo che non usciva di casa..."
  Umberto si calò il cappello in testa e scese in strada.
  Era un po' di tempo che non usciva di casa. Preferiva starsene seduto in poltrona a sentire tutti i telegiornali o i documentari che riusciva a trovare, oppure affacciato alla finestra a scrutare il movimento in strada. Qualche volta si preparava un tramezzino, o un'insalata, e tutte le volte apparecchiava la tavola, accendeva la radio e stendeva le gambe davanti a sè sull'unica altra sedia disponibile nella stanza. Alla fine del pasto mangiava un bastoncino di liquirizia, afferrava una rivista di enigmistica e passava tutto il tempo che gli serviva per riuscire a completare il tabellone delle parole crociate. In quei momenti dimenticava tutto di sè e tornava bambino, quando passava i pomeriggi a inventare cruciverba che il giorno dopo sottoponeva agli amici, i quali avevano difficoltà a risolverli e che proprio per questo si vendicavano mettendo in giro la voce che lui fosse malato di una malattia misteriosa e contagiosissima e che l'unico modo per restarne indenni fosse evitarlo.  Ma ora era venuto il momento di uscire, si disse. Le giornate si erano allungate, il cielo era sereno e nemmeno una nuvola sembrava turbare la quiete e la grazia di una primavera precoce e dolcissima.  E poi restarsene chiusi in casa quando persino gli appartamenti vicini erano immersi nel silenzio, no, questo era intollerabile.  

giovedì 12 gennaio 2012

Persuasione

Imparai a esercitarlo presto, molto presto, quello  che papà definiva il mio potere di persuasione fisica, in un epoca in cui il bene e il male per me corrispondevano alla soddisfazione più o meno immediata dei miei capricci. Avevo tre anni, o forse anche meno, ma ricordo tutto con estrema precisione. Per cominciare ricordo un grosso cane dal muso giallastro. Ricordo il suo alito fetido, gli occhi stanchi e una coda lunga e spessa che mi spazzava la faccia avanti e indietro.
 Mamma mi teneva per la mano, papà leggeva un giornale.
 Eravamo in coda. Perché fossimo in coda non saprei dirlo. Aspettavamo. Ci guardavamo negli occhi e aspettavamo. Aspettavamo il nostro turno, controllavamo l’ora e sbuffavamo. Anch’io sbuffavo. Guardavo mamma e papà gonfiare le guance e spettinare i capelli di chi gli stava davanti e anch’io presi a fare lo stesso, con la differenza che davanti a me non c’era nessuno della mia altezza eccetto quella maledetta coda sporca che a intervalli di quattro, cinque secondi mi spazzava la faccia, impedendomi di sbuffare e dire alcunché ai miei genitori. Sulle prime non dissi niente. Mi limitai a fare un passo indietro e lasciarmi sventolare da quella coda maleodorante. Era estate e un po’ di ventilazione era piacevole. Però ogni due passi indietro che facevo io, ne bastava mezzo del padrone di quel cane per ritrovarmi la sua coda sul naso. Strattonai mamma, e lei mi disse non seccarmi. Strattonai papà, e lui mi scompigliò i capelli e mi porse il suo cellulare dicendomi tieni, gioca. Non mi restava che sbrigarmela da sola. E così feci un passo indietro. E ancora uno. E ancora uno. Finché andai a sbattere contro il ginocchio di una vecchia. Uno schiaffo in testa, mamma che mi tira da una parte, papà dall’altra, io urlo, chiudo gli occhi per urlare ancora più forte, una mano mi tappa la bocca, apro gli occhi e vedo che è la mano di papà, che con una mano mi ammutolisce e con l’altra mi blandisce offrendomi un lecca-lecca, che io scarto e comincio a leccare, una, due volte, e poi basta, perché la coda del cane lo spazza via, ai piedi di papà, mi sento in bocca i peli del cane, sanno di piscio e tabacco, voglio urlare, lo voglio fare, sto per farlo, apro la bocca, vedo la coda sciabolarmi davanti, chiudo la bocca e stringo forte e il piacere che provo a stringere tra i denti la coda tabaccosa e pisciolenta di quel cane è un piacere nuovo per me, un piacere illimitato, che non finisce, nemmeno quando mamma e papà mi aprono la bocca e mi tirano via e portano fuori dall’ufficio, nemmeno quando mamma mi prende a schiaffi sul collo e papà mi chiude in macchina, nemmeno quando è notte e tutto è silenzio e io guardo la sveglia pensando che domani vado a fare il dog-sitter per una famiglia di milanesi in vacanza qui a B.

I migliori racconti - N. 1 - Bartleby (Melville)

Per me, in questo racconto, c'è tutto quello che serve per rendere una storia unica e indimenticabile.
C'è il comico - un enigmatico cialtrone che non ne vuol sapere di ubbidire al capo.
C'è il tragico - la solitudine di un uomo che non riesce a stabilire un contatto con il mondo esterno.
C'è la Storia - il lavoro che aliena e che ci rende stranieri gli uni con gli altri.
C'è la pietas - l'empatia del capo verso un dipendente strambo e mite come nessuno.
C'è la follia - nessuno dei personaggi è tipicamente sano e normale.
C'è la grazia - riuscire a intuire qualcosa su quello che è un essere umano come solo poche volte prima ci è capitato.
E c'è anche molto altro che ora non ricordo e che mi spinge a continuare a leggerlo e rileggerlo anno dopo anno.

I migliori raccoti - N.2 - Il trasloco (H. Lange)



Ogni due, tre mesi lo prendo e lo rileggo. Non lo faccio per culto o devozione nei confronti dello scrittore, e nemmeno per vezzo o capriccio da arrembante scrittore in erba. Lo faccio per un motivo molto più banale: ficco il naso, letteralmente, nella mia libreria; cerco un librro da leggere, e - zac! - l'occhio, letteralmente, mi cade su Leptis Magna: sfoglio le prime pagine del racconto "Il trasloco", poi mi siedo e comincio la lettura, e vado avanti finché qualcuno o qualcosa non mi interrompe; e a quel punto, senza mollare il libro, faccio quello che devo fare e mi ripeto che no, non è possibile, la conosco a memoria quella storia, cosa la leggo a fare. Eppure succede. Quando torno al libro, torno al punto dov'ero rimasto e proseguo fino alla fine e anche dopo che ho finito continuo a dirmi: questa storia non è una storia come tante. C'è qualcosa di folle e stregonesco. Irresistibile.

lunedì 9 gennaio 2012

Quante volte

Quante volte ti è capitato di pensare all'ultimo giorno come a un organismo senza più corpo ma ancora in procinto di nascere per un'altra, ennesima volta? E quante volte ti sei detto che forse è meglio così, meglio che sia finita, insomma, perché sono più le cose che non ti sono piaciute e che vorresti cambiare di quelle che hai amato e che non vorresti perdere?

Cosa ricorderai di questo 2011? Tante, troppe cose, pensi. Come proposito per il nuovo anno è sempre bene dimenticare molto e ricordare poco. Ma due, tre cose voglio portarmele nell'anno nuovo, pensi. Prima di tutto l'immagine di mia figlia che impara a camminare, prima pochi passi incerti, poi delle brevi corsette da un divano all'altro, infine tutto il corridoio a braccia larghe e calzettoni arrotolati, con la lingua di fuori e le gambe che si schiantano a terra quando proprio non ce la fa più, le manine tese verso l'alto a chiedere aiuto. Poi vorrei portarmi dietro i libri che mi hanno saputo emozionare, su tutti direi S. di Gipi e Piazza d'Italia di Tabucchi, ce ne sarebbero altri ma lambiccarmi il cervello non mi va e così ne dico solo due. Poi vorrei portarmi dietro una gita a Borgotaro, il prato sul quale ci siamo sdraiati tutti e tre, il sole in faccia e lo sciabordio del fiume più in basso, di nuovo bambini, tre bambini a giocare con i fili d'erba e pensare in questo posto vorrei passarci ogni ora libera dal lavoro.