giovedì 22 dicembre 2011

I migliori racconti - N.3 - Il naso (Gogol)



Il 25 marzo, a Pietroburgo, accadde un avvenimento molto strano. Il barbiere Ivàn Jakovlèvic, che abitava sulla Prospettiva Voznesènskij (il suo cognome è andato perduto e nient'altro risulta dalla sua insegna, dov'è raffigurato un signore con una guancia insaponata e la scritta: "Si cava anche sangue"), il barbiere Ivàn Jakovlèvic dunque si svegliò abbastanza presto e sentì odore di panini caldi. Sollevandosi un poco sul letto, vide che sua moglie, una signora abbastanza rispettabile cui piaceva molto bere caffé, sfornava dei panini appena cotti.

Cielo terso

Oggi il cielo è terso, e anche se siamo vicini al Natale qualcuno si azzarda a uscire dall'ufficio senza cappotto, con le mani in tasca e il naso per aria. Quasi nessuno, però, parla di regali da fare o ricevere, sembra sconveniente, fuori luogo, una nota stonata in una giornata come questa. Un ragazzo dice che oggi è un bella giornata perché da oggi le giornate cominciano ad allungarsi, e allora un altro, che solitamente si limita ad annuire, alza un dito al cielo e dice, sì, è vero, si sente qualcosa, l'aria è diversa, siamo in inverno, l'inverno è cominciato e durerà ancora a lungo, però qualcosa mi dice che quest'anno avremo più luce dell'anno scorso, e la luce è importante, sappiamo tutti come la luce influisca sull'umore. E non solo, ribatte il primo ragazzo. La luce dei lampioni, benché fredda e artificiale, è così avara nella nostra città che nessuno si azzarda a uscire di casa dopo le cinque di sera. Ce ne stiamo in casa, a guardare la tv o giocare a carta, parliamo sempre meno, mangiamo sempre di più, capita persino di passare la giornata seduti sul divano a mangiare, bere, dormire, studiare, ecc. senza nemmeno accorgersi del passare del tempo. Capita anche a te? Il secondo ragazzo, che quando non sa come articolare bene il proprio pensiero è solito stringersi nella spalle e guardarsi la punta delle scarpe, questa volta scuote la testa e dice, sì, anche a me succede di passare giornate intere senza muovermi dal letto, mamma non dice niente, perché anche a lei passa la voglia di indagare i motivi del mio torpore e rimbrottarmi, mi guarda, sorride e tutto quello che riesce a dire è: aspetta che torni tuo padre, e vedrai. Poi mio padre torna e la prima cosa che dice appena mi vede è: eh, bravo, tu sì che la sai lunga! Qualche volta, a cena, io ci provo a spiegare ai miei com'è difficile vivere in un quartiere immerso nell'oscurità dentro una città piccola e senza confini perché priva di luce durante la stagione autunnale e invernale. E loro mi ascoltano e mi dicono che ai loro tempi era anche peggio, perché c'era il coprifuoco, c'erano le tessere annonarie, c'era la carestia e la fame e mancavano così tante cose che alla luce nemmeno ci si pensava. Sarà, dice il secondo ragazzo, però secondo me all'origine di tutto c'è la luce. C'è scritto anche nella Bibbia, che prima ci fu la luce e poi venne il resto, o qualcosa di simile, adesso non ricordo, però dimmi tu come possiamo io e te avere voglia di uscire e incontrarci dopo le cinque di sera quando non vedi nemmeno dove metti i piedi e può capitare di scivolare sopra una cacca di cane, oppure una bottiglia di plastica, quante volte mi è successo di uscire per andare a prendere un amico in stazione e non riuscire a trovarlo, oppure trovarlo ma non riconoscerlo finché non gli pesto un piede o gli cado addosso! Frattanto il primo ragazzo se n'era andato, e nessuno ci aveva fatto caso. Era calato il sole, gli uffici cominciavano a chiudere, i negozi sembravano improvvisamente troppo lontani per avere la voglia di andare a rifugiarsi dentro, e così il secondo ragazzo sfoderò il cellulare e con quello puntato sui piedi si fece strada fino a casa e da lì nessuno l'ha più visto uscire.

mercoledì 21 dicembre 2011

I migliori racconti - N.4 - Wakefield (Hawthorne)

Quasi uno specchio


Perché dovrebbero farlo? Non hai i requisiti. Non più, almeno.
Da molto, troppo tempo.
Sei nato in un'epoca in cui il lavoro c'era, e anche se non c'era, chiunque, anche il più sprovveduto e maldestro dei tuoi amici, poteva trovare qualcosa. Un'epoca in cui a tredici anni scaricavi casse di acqua, aranciate, vino, bombole a gas (dillo, quante volte hai provato il desiderio di accendere il rubinetto del gas per sentire il rumore che fa?) in cambio di una manciata di gettoni per la sala giochi e una cioccolata calda ogni volta che ti andava; a quindici eri pronto per dare una mano al bagnino, ripulire la spiaggia a fine giornata, preparare un tramezzino o un caffé quando al bar non c'era più nessuno, chi a sbocconcellare qualcosa, chi a chiamare la morosa, chi a schiacchiare un pisolino (un pisolino?); a diciotto già ti conoscevano tutti in paese, e anche chi non ti conosceva sapeva di te per sentito dire, e un posto, in un bar o in albergo, lo potevi trovare. Eri giovane, e giovane lo saresti stato per sempre, il lavoro avrebbe preso tutto il tuo tempo e le ragazze sarebbero state delle comete che avrebbero invaso i tuoi sogni, prima, e il tuo letto, poi, ogni volta che saresti andato in discoteca con i tuoi amici. Il lavoro ti mantiene giovane, ti avrebbe detto una delle ragazze scoprendo la tua età. E un'altra, non meno sorpresa della prima, ti avrebbe proposto una settimana bianca in una celebre località turistica di cui conosci solo il nome ma che ti sembra lontanissima e che hai sempre immaginato completamente immersa nel bianco, talmente biancheggiante da rendere il paesaggio stesso e i suoi abitanti, turisti compresi, avvolti da una patina traslucida, quasi uno specchio nel quale osservarvi, tu e la ragazza dallo strano accento, una ragazza che è bella e dolce e calma e, soprattutto, paziente, di una pazienza che ha quasi dell'anormale, se consideriamo che le avresti sfiorato la mano prendendoti tutto il tempo che ti serve (intanto puoi continuare a bere e strizzare gli occhi con aria assorta) prima di darle una risposta e deciderti chi scegliere e chi scartare con la consapevolezza che sei giovane e hai tutto il tempo che vuoi per te e per le ragazze e per le città che vorresti vedere e hai sempre e solo immaginato e che questo tempo che sembra durare da ore non è che l'inizio, l'inizio di qualcosa che vorresti potesse durare tutta la vita e che, forse, se sarai bravo e saprai fare le scelte giuste al momento giusto, non finirà mai.

mercoledì 7 dicembre 2011

Norimberga

Il cielo è nero. Il cielo è giallo. Il cielo, da un po' di tempo a questa parte, ha smesso di essere impalpabile per trasformarsi in una lastra di piombo e cemento. Basta alzare gli occhi, e te la vedi lì, ogni ora che passa sempre più vicina e incurvata. 
Non resta che prendere la mira e tirargli contro l'unico paio di scarpe che hai.
Non servirà a niente, però il fatto che il cielo risponda alla tua rabbia e che faccia eco alle tue imprecazioni, ti fa stare bene. Un sollievo che dura poco. Ma di questi tempo, anche questo poco è tanto. Sì, tanto. Più di quanto potessi sperare.   

giovedì 1 dicembre 2011

Un cappello smarrito, due pensieri ritrovati


Nella corsa che fece sulla strada di casa, perse il cappello. Quando si voltò, era troppo tardi: il vento se l'era portato via, e per quanto si affannasse a chiedere ai passanti nessuno riuscì a capire di cosa parlasse visto che i cappelli, al giorno d'oggi, non li porta più nessuno. 

Ne comprò uno nuovo. Nessuno sembrava riconoscerlo per strada, e anche chi lo riconosceva mostrava imbarazzo e timore a fermarsi, tirava dritto per la propria strada, bofonchiando qualcosa a proposito di commissioni da sbrigare, pratiche in sospeso, persone da incontrare. 

Una settimana dopo la moglie gli fece notare la strana forma che aveva assunto la rivestitura interna del cappello. Non c'erano dubbi: era la sagoma di un cammello.
Il cammello gli fece tornare in mente il primo e ultimo viaggio che aveva fatto: il deserto del Sahara, per festeggiare i suoi sessantanni e avere qualcosa di eclatante da raccontare alla prossima donna che avesse conosciuto in balera. Si ricordò degli incubi che lo attanagliarono durante la notte, ritrovarsi solo a chiedere aiuto senza più un goccio d'acqua per sé e per il proprio cammello. Un incubo che condizionò il resto della vacanza. A partire dal giorno dopo rifiutò di dormire, per non perdere terreno dai propri compagni di viaggio, e rifiutò di mangiare, per abiturarsi a resistere al peggio. Poi cominciò a chiedere delle soste, sempre più prolungate e sempre meno motivate. Niente da dire, a tutti capita di sentirsi un po' fiacchi, sennonché alla quarta volta che chiese di fermarsi a prendere fiato, nessuno gli prestò attenzione e prima che calasse il sole, scoprì di non avere più nessuno a fianco e che il peggio che aveva previsto, ora, si era avverato.

Fu portato in salvo da un cammello. La mattina dopo si svegliò e vide sdraiato vicino a sè un bellissimo esemplare di cammello dagli occhi divertiti e innocenti. Una settimana più tardi, alla fermata dell'autobus, conobbe sua moglie. Si sposò, fecero un viaggio di nozze in Norvegia, al ritorno la moglie scoprì di essere incinta, poi al primo figlio ne seguirono altri due, il tempo prese a scorrere a una velocità doppia rispetto al solito, una velocità insostenibile per le sue abitudini, tanto che senza nemmeno riuscire a capire come si ritrovò a guardare in una vetrina l'immagine di un vecchio con la schiena curva e i capelli bianchi, un vecchio senza più memoria e cappello, un vecchio che, volente o nolente, dovette ammettere essere l'immagine speculare di sè.

 Pensava di suicidarsi, per smetterla di sentirsi vecchio e rimbambito. Poi ritrovò il cappello, quello vecchio,  e con quello il cammello, lo stesso che gli aveva salvato la vita dieci anni prima. Cappello e cammello lo rimisero in sesto, e da allora non ebbe più pensieri né preoccupazioni, eccetto quello di tenersi ben stretto il cappello e sorridere ai colpi bassi che la vita, di tanto in tanto, era solita tendergli.

venerdì 18 novembre 2011

2 bis

L'uomo grande e grosso con gli occhiali appannati è tornato. Ha chiesto il supporto cartaceo. Gliel'avevamo promesso. Non abbiamo ancora nulla da dargli, ma ci dispiace dirglielo, e così gli stampiamo tutto quello che troviamo su corsi di laurea  e insegnamenti attivati in questo anno accademico.
Prima di andarsene ci ringrazia, si scusa per il disturbo, dice: "Mi dispiace interrompere il vostro lavoro, ma dovevo farlo. Devo scrivere un romanzo e senza questa miscellanea di dati non posso iniziare."
"Un romanzo di che tipo?" chiediamo.
"Avventura o fantascienza. Devo ancora decidere."
"Dipende dalla quantità di dati che ti forniremo?"
"Sì. Anche."
"E quando pensi di cominciare?"
"Presto. Nei prossimi cinque anni."
"Cinque?"
"Ora mi occupo del progetto. Poi lavorerò alla struttura della storia. Poi penserò al titolo."
"E finalmente comincerai"
"Non prima di aver trovato un agente e una casa editrice!"
"Ah, ecco."
"Dico bene, no?"
"Oh, benissimo. In bocca al lupo!"
"Grazie! Crepi!"

Due giorni

Quello che può succedere in due giorni. Chi lo può dire? Senti questa e capirai.
 Può succedere di vedere sulle scale del tuo ufficio un ragazzo di venticinque anni con le mani nei capelli e la voce incrinata parlare della madre ricoverata in ospedale e dell'esame all'università che non riesce a superare e della casa da riordinare e che nessuno è mai riuscito a mettere in ordine, né lui né la madre né l'amica della madre che ogni due settimane viene a prendere un caffé e dare una pulita.
Ora che viene buio sempre prima, quello che il ragazzo di venticinque anni con le mani nei capelli e la voce incrinata vuole fare è stare alla finestra e puntare lo sguardo lassù, verso lo stelle, cercare Venere, Giove, Marte, Saturno, cercare qualcosa che lo aiuti a sentirsi meno pesante e lento di quanto si sente negli ultimi tempi. 
Poi va a letto, e dormendo prova la sensazione di galleggiare nello spazio e arrivare a sfiorare le stelle.  
Il giorno dopo si sveglia in un bagno di sudore. Pensa: "Devo averne fatta, di strada, per ridurmi così!" Passa dall'ufficio prima dell'ora di pranzo, saluta tutti e si siede sugli scalini a riposarsi un po' prima di andare in biblioteca a studiare. 
Qualcuno gli chiede come sta, lui guarda il cielo, fa una smorfia di disappunto e sbuffa: "Bene, bene. Non c'è male, oggi. Niente male, no."

martedì 15 novembre 2011

3


Ogni giorno, appena arrivato in ufficio, la prima cosa che si sentiva dire era: "Tutto bene? Ti trovo un po' pallido." Allora correva in bagno, si scrutava la faccia, la gola, si lavava le mani, si dava una pettinata. Rientrato in ufficio, guardava il cielo. Se oggi riesco ad uscire qualche minuto prima, si diceva, corro in spiaggia a prendermi l'ultimo spicchio di sole della giornata. 
Ma presto arrivava il buio, e quando usciva dall'ufficio a malapena vedeva la strada davanti a sè. Arrivato a casa, si spogliava e si immergeva in una vasca colma fino all'orlo di acqua bollente e sapone. Appoggiava la testa, e ascoltava alla radio un radiodramma. Qualche volta si addormentava, qualche altra ascoltava la trasmissione fino alla fine, e anche dopo la sigla di chiusura restava immerso nella vasca chiedendosi cosa sarebbe successo se tizio avesse detto questo o caio avesse fatto quello. 
Il più delle volte, quando usciva dal bagno, trovava la cena pronta e la tv sintonizzata su un canale sportivo. Si sedeva, allungava le gambe sulla sedia più vicina, scoperchiava i piatti e cominciava a mangiare. Salsiccia alla griglia, patate al forno, fontina e macedonia.  Gli piaceva mangiare, era uno dei pochi piaceri che si concedeva durante la giornata. Masticava lentamente, sorseggiava un buon bicchiere di vino rosso, tagliava una fetta di pane e ci spalmava sopra una virgola di pasta di acciughe. 
Ascoltava il notiziario sportivo. Lo ascoltava come si ascoltano le voce dei passeggeri su un treno. Solo quando nominavano uno dei suoi calciatori preferiti, o uno degli allenatori che aveva amato in passato, restava con le posate a mezz'aria, annuiva, e riprendeva a mangiare pensieroso e soddisfatto di sè.
Dopo cena, spegneva la tv, fumava una sigaretta in balcone e fissando le stelle si chiedeva se era vero quello che diceva suo padre quando era un bambino. "La vedi quella stella, lassù? E' là che finiamo tutti, una volta che siamo morti. La gente ci manda sottoterra, ma l'anima, quello che insomma resta di noi una volta che tutto è finito, va lassù, e da lassù passa l'eternità a cercare un modo per esprimersi e farsi capire da chi sta qua!"

Chiedo asilo

La bambina ha un anno e mezzo.
Cammina da un mese, mangia da sola e ogni volta che sente una melodia scuote la testa avanti e indietro e ti fissa con i occhi suoi enormi, la bocca spalancata, la lingua di fuori.
 Sembra instancabile. Sale e scende dal divano, si arrampica sul lettone di mamma e papà, corre in bagno, apre l'acqua, ride. 
La sua giornata comincia alla sette, stringendo tra le mani il biberon e scalciando con i piedi contro il seggiolone, e finisce alle otto di sera, facendosi largo tra le sedie e sbracciandosi verso la mamma mugolando e sbuffando finché non viene presa in braccio. Poi appoggia la testa sulla spalla di mamma, stringe le braccia attorno al collo e sbadiglia.
Va tutto a meraviglia, insomma, se non fosse che al mondo, dentro casermoni grigi aditi ad asili esistono donne capaci di giudicare un bambino e sentenziare che è avanti o indietro rispetto ai parametri che qualcuno ha stabilito, parametri rigidi secondo i quali tutti i bambini devono uniformarsi, perché  la capacità di attenzione e reazione di un bambino di fronte a uno stimolo deve essere uguale, oppure la bambina è indietro, signora. Indietro in che senso, scusi? Se noi le proponiamo qualcosa di nuovo, spiega una di queste giovani donne infarcite di nozioni pedagogiche e prive di qualunque capacità di empatia, la bambina pare inconsapevole. 
Inconsapevole?
Non ha mai preso in considerazione l'ipotesi di una visita neuro-psichiatrica? Non ha mai pensato di farle seguire un programma di sviluppo in linea con le capacità cognitive della bambina? Perché non prova  a parlarne con uno specialista?
In tutto questo tempo, mentre la donna infarcita di nozioni pedagogiche ripete ossessivamente le sue domande senza mai smettere di sorridere e fissare un punto imprecisato della stanza, la mamma si nasconde il viso dietro le mani, e piange.
Nessuno sembra accorgersene, a parte il padre.
 Non la donna infarcita di nozioni pedagogiche, non la sua assistente, e nemmeno l'inserviente che fa capolino dalla porta con la scopa in mano e un secchio vuoto davanti ai piedi. Sembrano ignorare la capacità di attenzione e di reazione della madre di fronte a uno stimolo esterno. Sembrano pensare ad altro. Forse a certe tabelle lette su qualche manuale di pedagogia, forse a qualche trasmissione televisiva nella quale sperano un giorno di fare la loro comparsa. Chissà!


  
   

lunedì 14 novembre 2011

La prima storia

La prima storia che mi hanno pubblicata è nata per gioco. Io e un'amica abbiamo scritto una parola su un foglio. Lo abbiamo appallottolato e lanciato in aria. Io ne ho preso uno e ho letto: "Tacchi a spillo", lei ha preso l'altro e ha letto: "Unghie".
 Unico limite: non più lungo di una pagina.
La settimana dopo siamo andati in trattoria. Ci siamo scambiati le storie e abbiamo firmato su un tovagliolo di carta un impegno a continuare a sfornare storie e presentarle all'altro ogni mercoledì.
Da allora sono passati un po' di anni. La mia amica l'ho persa di vista, e "Tacchi a spillo" qualche settimana dopo è cresciuto e l'ho inviato per mail a un sito di narrativa on-line che ha deciso di pubblicarlo. Poi il sito di narrativa on-line ne ha pubblicati altri, di miei racconti, e qualche mese dopo uno scrittore famoso ma non troppo mi ha contattato per chiedermi di mandarli a lui, i racconti, che faceva l'editor per una casa editrice romana. Gliene ho mandati altri, e ogni volta li leggeva e li commentava subito, nel giro di un'ora o due. Poi un giorno mi propose di scrivere un romanzetto, disse che ero pronto. Io non lo ero, ma alla fine ho ceduto. E intanto che scrivevo il romanzetto, mi ha proposto di scrivere anche una lettera a un politico o celebre personaggio storico. Alla maniera di "Herzog" di Bellow, mi scrisse. Mi sono preso una settimana, l'ho fatto e subito gliel'ho spedita. All'editor, la mia lettera, è piaciuta. Quando mi ha scritto che l'aveva letto e che gli era piaciuta e che difficilmente qualcuno sarebbe riuscito a scriverne una più bella, non ho creduto ai miei occhi, ho spento il pc e me ne sono andato a casa (all'epoca non avevo un pc a casa e per connettermi utilizzavo le postazioni che forniva la segreteria dell'università).
Poi i romanzi li ho scritti. Non sono piaciuti a nessuno; e a dirla tutta nemmeno a me, se escludiamo l'entusiasmo delle prime settimane. Ora scrivo solo racconti. Sono tornato lì da dove ero partito, ma questo è quello che mi piace di più e che so fare meglio. Sono racconti. Storie con un inizio e una fine e nessuna pretesa di insegnare o criticare alcunché.  
Ne ho già sei di cui vado fiero. Più di quanti ne avessi scritti all'epoca in cui lo scrittore famoso ma non troppo mi propose di passare al romanzo e lasciar perdere i racconti. Forse questo è un buon segno, oppure no, ma che importa, quello che conta è trovare le parole giuste e dirle nella sola maniera possibile per la storia che si sta raccontando.

Studente tutor

Quando mi chiedono che lavoro faccio, dico che sono uno studente tutor.
Faccio fotocopie, popolo un database, rispondo al telefono, smisto gli studenti fuori dalla porta (questo è il bagno, quelle sono le sedie dove attendere il proprio turno, ecc.). Non ho un nome, tutti mi chiamano così: studente tutor. Mi hanno detto che avrei imparato e che se mi fossi dimostrato all'altezza delle aspettative un giorno, forse, avrei potuto lavorarci qui. Il problema è che siamo tanti. Troppi, direi. Ogni volta che arrivo in ufficio, c'è un nuovo collega. Ci sediamo in quattro, cinque alla scrivania. Sgomitiamo, sbuffiamo, imprechiamo. Contro le dimensioni dell'ufficio, il freddo, la polvere, il disordine, l'inflazione e la disoccupazione. Mentre uno lavora, l'altro intrattiene gli studenti fuori dalla porta, passa una penna alla manager didattica, prende un registro, lo ripone. In fondo, la manager didattica ci ha detto che qui funziona così: l'importante è fare qualcosa, qualunque cosa, pur di sbrigare del lavoro e andare avanti.
Passano settimane, alle volte anche mesi, e nulla sembra cambiare. 
Un giorno arrivo in ufficio con mezz'ora di ritardo. Davanti alla porta della manager didattica trovo un cartello: non disturbare. Sono l'ultimo della fila, e mi tocca aspettare. Spiego chi sono a quello che mi sta davanti e lui, senza battere ciglio, allarga le gambe e sbuffa: "Non mi scocciare. Sono due ore che aspetto." Chiamo la manager, lei mi aprirà la porta e mi accoglierà nel suo ufficio come un naufrago sulla scialuppa. Il telefono suona a lungo, prima di sentire la voce nasale di uno dei miei colleghi rispondere: "Sì, pronto?" Mi presento, chiedo di parlare con la manager e gli prometto che se mi aiuterà gli offrirò un pranzo.
Un minuto dopo un altro studente tutor mi risponde con la voce più metallica che conosca: "La manager è impegnata. Vuole un appuntamento?"
Proprio in quel momento la porta si apre di schianto. Mi sbatte contro la schiena e crollo a terra pensando questa è la mia fine, non ho un centesimo in tasca e questa è la volta buona che il padrone di casa mi sfratta.

2

Era alto e grosso e aveva gli occhiali terribilmente sporchi e appannati.
La prima cosa che disse è: "Mi serve un supporto cartaceo." La seconda fu: "Quando posso tornare?" Sembrava avere fretta. Sembrava sul punto di prendere una decisione importante per la propria vita. Glielo chiedemmo, a cosa gli serviva il supporto cartaceo quando poteva trovare tutte le informazioni sull'offerta formativa direttamente on-line. Gli spiegammo che se si sedeva avremmo potuto fornirgli tutte le informazioni di cui aveva bisogno, evitargli un altro viaggio, aiutarlo seduta stante.
Ma l'uomo ciondolò la testa e disse: "Voglio scrivere un romanzo e mi devo documentare sul mondo e sul modo giusto per raccontarlo."
Allargammo le braccia. Ci scambiammo uno sguardo, trattenendo a fatica il riso.
 Aveva ragione, disse uno di noi. In questi casi quello che serviva era proprio un supporto cartaceo.

venerdì 11 novembre 2011

1

Il giorno che decise di scrivere un diario delle storie che scriveva, aveva nausea e mal di testa. Sapeva il motivo, ma non voleva ammetterlo né confessarlo a nessuno. Non gli andava di farsi commiserare, e poi le parole lo infastidivano quando sentiva che erano di troppo. Decise di scrivere 1 in alto a destra, e per finire scrisse: due cose belle ha il mondo, l'amore e la morte. L'ha scritto Leopardi, e ogni tanto mi capita di pensarci, a Leopardi e alle storie che ho lasciato da parte e che presto riprenderò a scrivere. Nausea e mal di testa permettendo.