venerdì 18 ottobre 2013

Note a margine di V.


Del mese di settembre ricorderò il trasloco, la vecchia cosa ingombra di scatole, la nuova appena imbiancata e con le finestre perennemente spalancate e i vetri coperti di fogli di giornale, mia figlia che piange e chiede di andare a casa, mia moglie che s'affanna a pulire e sgombrare la casa di tutte le scatole, io perso a ordinare la nuova libreria, l'odore di legno che si sente ancora nello studio e in camera e in cameretta, e la cucina così grande, la sensazione che con tutto quello spazio potremmo vivere qui a lungo,  forse per sempre, e poi ricorderò una giornata passata insieme a mia moglie per le strade di un'altra città, mano nella mano, per un giorno di nuovo fidanzati, seduti vicini al tavolo di una pizzeria a pensare ai colori della casa e alla sistemazione dei mobili e ai vantaggi che avremo dalla nuova abitazione, e poi ricorderò un romanzo bellissimo come "L'amante" di Yehoshua, il dispiacere nel leggere l'ultima pagina, la strana sensazione di provarlo a raccontare senza riuscirsi, perché tutti i libri che ho amato non riesco a raccontarli. 

Lavorare camminare lavorare

Si passa molto tempo al lavoro, troppo, sostengono molti, poco, ribatte chi un lavoro non ce l'ha o ce l'ha ma solo per modo di dire. Resta il fatto che si lavora troppo, e si parla troppo di lavoro, e si pensa troppo e quasi solo al lavoro nel tempo che avanza tra un incarico e l'altro, o tra l'entrata e l'uscita dall'ufficio, siamo quello che facciamo, dicono alcuni, e forse è vero, ma quello che sembra più vero del vero è che il lavoro ci tiene stretti alla sedia, se abbiamo una sedia, o alla catena di montaggio, se di quella si tratta, per così tanto tempo da non ricordarci più cosa resta di bello fuori dalla porta d'ingresso dell'ufficio, ditta o fabbrica nella quale entriamo ogni giorno, festività escluse, della nostra vita. 
Una buona abitudine è quello di sabotare, di tanto in tanto, il lavoro. Ritardare l'ingresso, anticipare l'uscita, rallentare il ritmo di lavoro, prendersi una pausa, rimandare il necessario, fare del superfluo l'indispensabile, ridere delle urgenze e fare di un capriccio un urgenza. Qualche volta funziona,  e allora si esce dal lavoro riposati, e la sera è possibile cenare con la mente sgombra, guardare un film senza addormentarsi a metà, andare a letto e scambiare due parole con la propria moglie riuscendo ad assaporare il piacere del sonno che sta per arrivare, eccolo, è arrivato, buona notte. 
Un'altra buona abitudine è quella di convincersi che il lavoro sia solo succedaneo a qualcos'altro. All'amore, ai viaggi, alla famiglia, alla letteratura, alla musica, ecc. E in quanto succedaneo, va preso per quello che è: in mancanza d'altro, ti dedico il mio tempo, ma non crederti più importante di quel che sei, un succedaneo, un sostituto, un alter ego di qualcosa di infinitamente più grande e più bello. 
Infine bisognerebbe sempre voltarsi verso la finestra e guardare che tempo fa e pensare che anche oggi usciremo da quella porta e faremo le scale e sarà una meraviglia attraversare la strada e osservare il colore del cielo e delle nuvole all'imbrunire, e il ronzio dei motorini, e il volo delle ultime rondini disperse sopra gli alberi, e l'odore di biancheria stesa che resta sospeso nell'aria dopo una lunga giornata di lavoro. 

martedì 15 ottobre 2013

I romanzi che sconfinano


In principio erano i romanzi a piacergli, solo i romanzi, meglio se lunghi, meglio se talmente complessi da perdercisi dentro, ancora meglio se poderosi nella struttura e nelle ambizioni. Poi vennero i racconti. Brevi, brevissimi, fulminei. Da leggere e rileggere, fino a conoscerli a memoria e poter annunciare a tutti che sì, il racconto, è la massima forma narrativa esistente. Poi ci fu il tempo dei romanzi ibridi, né romanzi né racconti, quelli che da qualunque parti li prendi non riesci a venirne a capo, perché un capo non ce l'hanno, perché sono inafferrabili e inclassificabili, sono i romanzi del XX secolo che hanno sfondato i confini e si sono presi il XXI secolo in anticipo, parliamo di "Underworld"(1997), "Detective selvaggi" (1998), "La controvita" (1986), "Canti del Caos" (2001-2009), i romanzi che hanno mandato in frantumi il romanzo classico borghese del XIX secolo per prendere su di sè tutto il meglio e il peggio del XX secolo (guerre, nascita e fine delle ideologie, boom economico e recessione, nascita e sviluppo delle tecnologie multimediali come tv, cinema e internet) e farlo riecheggiare nelle proprie pagine. Questi romanzi hanno forse un protagonista? No. Sono ambientati in un epoca e in un luogo determinati? No. Hanno un inizio e una fine? No. Sono libri zeppi di storie addensate e aggrovigliate tra loro da un nucleo rovente che tu, lettore, puoi solo percepire nel corso della lettura senza mai poterlo identificare in qualche modo. 
Qui sta il nocciolo della riflessione: dovrebbe essere vietato, oggi, scrivere romanzi secondo i vecchi canoni del romanzo borghese del XIX secolo!