venerdì 18 novembre 2011

2 bis

L'uomo grande e grosso con gli occhiali appannati è tornato. Ha chiesto il supporto cartaceo. Gliel'avevamo promesso. Non abbiamo ancora nulla da dargli, ma ci dispiace dirglielo, e così gli stampiamo tutto quello che troviamo su corsi di laurea  e insegnamenti attivati in questo anno accademico.
Prima di andarsene ci ringrazia, si scusa per il disturbo, dice: "Mi dispiace interrompere il vostro lavoro, ma dovevo farlo. Devo scrivere un romanzo e senza questa miscellanea di dati non posso iniziare."
"Un romanzo di che tipo?" chiediamo.
"Avventura o fantascienza. Devo ancora decidere."
"Dipende dalla quantità di dati che ti forniremo?"
"Sì. Anche."
"E quando pensi di cominciare?"
"Presto. Nei prossimi cinque anni."
"Cinque?"
"Ora mi occupo del progetto. Poi lavorerò alla struttura della storia. Poi penserò al titolo."
"E finalmente comincerai"
"Non prima di aver trovato un agente e una casa editrice!"
"Ah, ecco."
"Dico bene, no?"
"Oh, benissimo. In bocca al lupo!"
"Grazie! Crepi!"

Due giorni

Quello che può succedere in due giorni. Chi lo può dire? Senti questa e capirai.
 Può succedere di vedere sulle scale del tuo ufficio un ragazzo di venticinque anni con le mani nei capelli e la voce incrinata parlare della madre ricoverata in ospedale e dell'esame all'università che non riesce a superare e della casa da riordinare e che nessuno è mai riuscito a mettere in ordine, né lui né la madre né l'amica della madre che ogni due settimane viene a prendere un caffé e dare una pulita.
Ora che viene buio sempre prima, quello che il ragazzo di venticinque anni con le mani nei capelli e la voce incrinata vuole fare è stare alla finestra e puntare lo sguardo lassù, verso lo stelle, cercare Venere, Giove, Marte, Saturno, cercare qualcosa che lo aiuti a sentirsi meno pesante e lento di quanto si sente negli ultimi tempi. 
Poi va a letto, e dormendo prova la sensazione di galleggiare nello spazio e arrivare a sfiorare le stelle.  
Il giorno dopo si sveglia in un bagno di sudore. Pensa: "Devo averne fatta, di strada, per ridurmi così!" Passa dall'ufficio prima dell'ora di pranzo, saluta tutti e si siede sugli scalini a riposarsi un po' prima di andare in biblioteca a studiare. 
Qualcuno gli chiede come sta, lui guarda il cielo, fa una smorfia di disappunto e sbuffa: "Bene, bene. Non c'è male, oggi. Niente male, no."

martedì 15 novembre 2011

3


Ogni giorno, appena arrivato in ufficio, la prima cosa che si sentiva dire era: "Tutto bene? Ti trovo un po' pallido." Allora correva in bagno, si scrutava la faccia, la gola, si lavava le mani, si dava una pettinata. Rientrato in ufficio, guardava il cielo. Se oggi riesco ad uscire qualche minuto prima, si diceva, corro in spiaggia a prendermi l'ultimo spicchio di sole della giornata. 
Ma presto arrivava il buio, e quando usciva dall'ufficio a malapena vedeva la strada davanti a sè. Arrivato a casa, si spogliava e si immergeva in una vasca colma fino all'orlo di acqua bollente e sapone. Appoggiava la testa, e ascoltava alla radio un radiodramma. Qualche volta si addormentava, qualche altra ascoltava la trasmissione fino alla fine, e anche dopo la sigla di chiusura restava immerso nella vasca chiedendosi cosa sarebbe successo se tizio avesse detto questo o caio avesse fatto quello. 
Il più delle volte, quando usciva dal bagno, trovava la cena pronta e la tv sintonizzata su un canale sportivo. Si sedeva, allungava le gambe sulla sedia più vicina, scoperchiava i piatti e cominciava a mangiare. Salsiccia alla griglia, patate al forno, fontina e macedonia.  Gli piaceva mangiare, era uno dei pochi piaceri che si concedeva durante la giornata. Masticava lentamente, sorseggiava un buon bicchiere di vino rosso, tagliava una fetta di pane e ci spalmava sopra una virgola di pasta di acciughe. 
Ascoltava il notiziario sportivo. Lo ascoltava come si ascoltano le voce dei passeggeri su un treno. Solo quando nominavano uno dei suoi calciatori preferiti, o uno degli allenatori che aveva amato in passato, restava con le posate a mezz'aria, annuiva, e riprendeva a mangiare pensieroso e soddisfatto di sè.
Dopo cena, spegneva la tv, fumava una sigaretta in balcone e fissando le stelle si chiedeva se era vero quello che diceva suo padre quando era un bambino. "La vedi quella stella, lassù? E' là che finiamo tutti, una volta che siamo morti. La gente ci manda sottoterra, ma l'anima, quello che insomma resta di noi una volta che tutto è finito, va lassù, e da lassù passa l'eternità a cercare un modo per esprimersi e farsi capire da chi sta qua!"

Chiedo asilo

La bambina ha un anno e mezzo.
Cammina da un mese, mangia da sola e ogni volta che sente una melodia scuote la testa avanti e indietro e ti fissa con i occhi suoi enormi, la bocca spalancata, la lingua di fuori.
 Sembra instancabile. Sale e scende dal divano, si arrampica sul lettone di mamma e papà, corre in bagno, apre l'acqua, ride. 
La sua giornata comincia alla sette, stringendo tra le mani il biberon e scalciando con i piedi contro il seggiolone, e finisce alle otto di sera, facendosi largo tra le sedie e sbracciandosi verso la mamma mugolando e sbuffando finché non viene presa in braccio. Poi appoggia la testa sulla spalla di mamma, stringe le braccia attorno al collo e sbadiglia.
Va tutto a meraviglia, insomma, se non fosse che al mondo, dentro casermoni grigi aditi ad asili esistono donne capaci di giudicare un bambino e sentenziare che è avanti o indietro rispetto ai parametri che qualcuno ha stabilito, parametri rigidi secondo i quali tutti i bambini devono uniformarsi, perché  la capacità di attenzione e reazione di un bambino di fronte a uno stimolo deve essere uguale, oppure la bambina è indietro, signora. Indietro in che senso, scusi? Se noi le proponiamo qualcosa di nuovo, spiega una di queste giovani donne infarcite di nozioni pedagogiche e prive di qualunque capacità di empatia, la bambina pare inconsapevole. 
Inconsapevole?
Non ha mai preso in considerazione l'ipotesi di una visita neuro-psichiatrica? Non ha mai pensato di farle seguire un programma di sviluppo in linea con le capacità cognitive della bambina? Perché non prova  a parlarne con uno specialista?
In tutto questo tempo, mentre la donna infarcita di nozioni pedagogiche ripete ossessivamente le sue domande senza mai smettere di sorridere e fissare un punto imprecisato della stanza, la mamma si nasconde il viso dietro le mani, e piange.
Nessuno sembra accorgersene, a parte il padre.
 Non la donna infarcita di nozioni pedagogiche, non la sua assistente, e nemmeno l'inserviente che fa capolino dalla porta con la scopa in mano e un secchio vuoto davanti ai piedi. Sembrano ignorare la capacità di attenzione e di reazione della madre di fronte a uno stimolo esterno. Sembrano pensare ad altro. Forse a certe tabelle lette su qualche manuale di pedagogia, forse a qualche trasmissione televisiva nella quale sperano un giorno di fare la loro comparsa. Chissà!


  
   

lunedì 14 novembre 2011

La prima storia

La prima storia che mi hanno pubblicata è nata per gioco. Io e un'amica abbiamo scritto una parola su un foglio. Lo abbiamo appallottolato e lanciato in aria. Io ne ho preso uno e ho letto: "Tacchi a spillo", lei ha preso l'altro e ha letto: "Unghie".
 Unico limite: non più lungo di una pagina.
La settimana dopo siamo andati in trattoria. Ci siamo scambiati le storie e abbiamo firmato su un tovagliolo di carta un impegno a continuare a sfornare storie e presentarle all'altro ogni mercoledì.
Da allora sono passati un po' di anni. La mia amica l'ho persa di vista, e "Tacchi a spillo" qualche settimana dopo è cresciuto e l'ho inviato per mail a un sito di narrativa on-line che ha deciso di pubblicarlo. Poi il sito di narrativa on-line ne ha pubblicati altri, di miei racconti, e qualche mese dopo uno scrittore famoso ma non troppo mi ha contattato per chiedermi di mandarli a lui, i racconti, che faceva l'editor per una casa editrice romana. Gliene ho mandati altri, e ogni volta li leggeva e li commentava subito, nel giro di un'ora o due. Poi un giorno mi propose di scrivere un romanzetto, disse che ero pronto. Io non lo ero, ma alla fine ho ceduto. E intanto che scrivevo il romanzetto, mi ha proposto di scrivere anche una lettera a un politico o celebre personaggio storico. Alla maniera di "Herzog" di Bellow, mi scrisse. Mi sono preso una settimana, l'ho fatto e subito gliel'ho spedita. All'editor, la mia lettera, è piaciuta. Quando mi ha scritto che l'aveva letto e che gli era piaciuta e che difficilmente qualcuno sarebbe riuscito a scriverne una più bella, non ho creduto ai miei occhi, ho spento il pc e me ne sono andato a casa (all'epoca non avevo un pc a casa e per connettermi utilizzavo le postazioni che forniva la segreteria dell'università).
Poi i romanzi li ho scritti. Non sono piaciuti a nessuno; e a dirla tutta nemmeno a me, se escludiamo l'entusiasmo delle prime settimane. Ora scrivo solo racconti. Sono tornato lì da dove ero partito, ma questo è quello che mi piace di più e che so fare meglio. Sono racconti. Storie con un inizio e una fine e nessuna pretesa di insegnare o criticare alcunché.  
Ne ho già sei di cui vado fiero. Più di quanti ne avessi scritti all'epoca in cui lo scrittore famoso ma non troppo mi propose di passare al romanzo e lasciar perdere i racconti. Forse questo è un buon segno, oppure no, ma che importa, quello che conta è trovare le parole giuste e dirle nella sola maniera possibile per la storia che si sta raccontando.

Studente tutor

Quando mi chiedono che lavoro faccio, dico che sono uno studente tutor.
Faccio fotocopie, popolo un database, rispondo al telefono, smisto gli studenti fuori dalla porta (questo è il bagno, quelle sono le sedie dove attendere il proprio turno, ecc.). Non ho un nome, tutti mi chiamano così: studente tutor. Mi hanno detto che avrei imparato e che se mi fossi dimostrato all'altezza delle aspettative un giorno, forse, avrei potuto lavorarci qui. Il problema è che siamo tanti. Troppi, direi. Ogni volta che arrivo in ufficio, c'è un nuovo collega. Ci sediamo in quattro, cinque alla scrivania. Sgomitiamo, sbuffiamo, imprechiamo. Contro le dimensioni dell'ufficio, il freddo, la polvere, il disordine, l'inflazione e la disoccupazione. Mentre uno lavora, l'altro intrattiene gli studenti fuori dalla porta, passa una penna alla manager didattica, prende un registro, lo ripone. In fondo, la manager didattica ci ha detto che qui funziona così: l'importante è fare qualcosa, qualunque cosa, pur di sbrigare del lavoro e andare avanti.
Passano settimane, alle volte anche mesi, e nulla sembra cambiare. 
Un giorno arrivo in ufficio con mezz'ora di ritardo. Davanti alla porta della manager didattica trovo un cartello: non disturbare. Sono l'ultimo della fila, e mi tocca aspettare. Spiego chi sono a quello che mi sta davanti e lui, senza battere ciglio, allarga le gambe e sbuffa: "Non mi scocciare. Sono due ore che aspetto." Chiamo la manager, lei mi aprirà la porta e mi accoglierà nel suo ufficio come un naufrago sulla scialuppa. Il telefono suona a lungo, prima di sentire la voce nasale di uno dei miei colleghi rispondere: "Sì, pronto?" Mi presento, chiedo di parlare con la manager e gli prometto che se mi aiuterà gli offrirò un pranzo.
Un minuto dopo un altro studente tutor mi risponde con la voce più metallica che conosca: "La manager è impegnata. Vuole un appuntamento?"
Proprio in quel momento la porta si apre di schianto. Mi sbatte contro la schiena e crollo a terra pensando questa è la mia fine, non ho un centesimo in tasca e questa è la volta buona che il padrone di casa mi sfratta.

2

Era alto e grosso e aveva gli occhiali terribilmente sporchi e appannati.
La prima cosa che disse è: "Mi serve un supporto cartaceo." La seconda fu: "Quando posso tornare?" Sembrava avere fretta. Sembrava sul punto di prendere una decisione importante per la propria vita. Glielo chiedemmo, a cosa gli serviva il supporto cartaceo quando poteva trovare tutte le informazioni sull'offerta formativa direttamente on-line. Gli spiegammo che se si sedeva avremmo potuto fornirgli tutte le informazioni di cui aveva bisogno, evitargli un altro viaggio, aiutarlo seduta stante.
Ma l'uomo ciondolò la testa e disse: "Voglio scrivere un romanzo e mi devo documentare sul mondo e sul modo giusto per raccontarlo."
Allargammo le braccia. Ci scambiammo uno sguardo, trattenendo a fatica il riso.
 Aveva ragione, disse uno di noi. In questi casi quello che serviva era proprio un supporto cartaceo.

venerdì 11 novembre 2011

1

Il giorno che decise di scrivere un diario delle storie che scriveva, aveva nausea e mal di testa. Sapeva il motivo, ma non voleva ammetterlo né confessarlo a nessuno. Non gli andava di farsi commiserare, e poi le parole lo infastidivano quando sentiva che erano di troppo. Decise di scrivere 1 in alto a destra, e per finire scrisse: due cose belle ha il mondo, l'amore e la morte. L'ha scritto Leopardi, e ogni tanto mi capita di pensarci, a Leopardi e alle storie che ho lasciato da parte e che presto riprenderò a scrivere. Nausea e mal di testa permettendo.