lunedì 14 novembre 2011

Studente tutor

Quando mi chiedono che lavoro faccio, dico che sono uno studente tutor.
Faccio fotocopie, popolo un database, rispondo al telefono, smisto gli studenti fuori dalla porta (questo è il bagno, quelle sono le sedie dove attendere il proprio turno, ecc.). Non ho un nome, tutti mi chiamano così: studente tutor. Mi hanno detto che avrei imparato e che se mi fossi dimostrato all'altezza delle aspettative un giorno, forse, avrei potuto lavorarci qui. Il problema è che siamo tanti. Troppi, direi. Ogni volta che arrivo in ufficio, c'è un nuovo collega. Ci sediamo in quattro, cinque alla scrivania. Sgomitiamo, sbuffiamo, imprechiamo. Contro le dimensioni dell'ufficio, il freddo, la polvere, il disordine, l'inflazione e la disoccupazione. Mentre uno lavora, l'altro intrattiene gli studenti fuori dalla porta, passa una penna alla manager didattica, prende un registro, lo ripone. In fondo, la manager didattica ci ha detto che qui funziona così: l'importante è fare qualcosa, qualunque cosa, pur di sbrigare del lavoro e andare avanti.
Passano settimane, alle volte anche mesi, e nulla sembra cambiare. 
Un giorno arrivo in ufficio con mezz'ora di ritardo. Davanti alla porta della manager didattica trovo un cartello: non disturbare. Sono l'ultimo della fila, e mi tocca aspettare. Spiego chi sono a quello che mi sta davanti e lui, senza battere ciglio, allarga le gambe e sbuffa: "Non mi scocciare. Sono due ore che aspetto." Chiamo la manager, lei mi aprirà la porta e mi accoglierà nel suo ufficio come un naufrago sulla scialuppa. Il telefono suona a lungo, prima di sentire la voce nasale di uno dei miei colleghi rispondere: "Sì, pronto?" Mi presento, chiedo di parlare con la manager e gli prometto che se mi aiuterà gli offrirò un pranzo.
Un minuto dopo un altro studente tutor mi risponde con la voce più metallica che conosca: "La manager è impegnata. Vuole un appuntamento?"
Proprio in quel momento la porta si apre di schianto. Mi sbatte contro la schiena e crollo a terra pensando questa è la mia fine, non ho un centesimo in tasca e questa è la volta buona che il padrone di casa mi sfratta.

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