martedì 31 luglio 2012

Arriva un giorno, e quel giorno sei tu

Arriva un giorno, e quel giorno sei tu, in cui le parole cominciano a scivolare una dietro l'altra, tutto sembra facile e, finalmente, niente sembra impossibile. Le parole, nei giorni migliori, zampillano dai polpastrelli prima che dagli occhi, e allora vorresti nasconderle al mondo, perché ogni parola, prima ancora che diventi parte di un discorso, è la spia di un segreto che ti porti dentro e nemmeno tu conosci fino in fondo. Forse per questo esiste la letteratura. Forse è questo che ti spinge a leggere. Forse, ammettilo, è per questo che non puoi smettere di scrivere.

Nostalgia


Sa cos'è la nostalgia ma non riesce a spiegarlo. La sola parola finisce per ammutolirlo. Però un esempio di quello che pensa possa essere la nostalgia sa farlo. Qualche volta, dice, gli capita di navigare su internet, o meglio di ritrovarsi su google, e lì, di fronte alla schermata bianca e indifferente del motore di ricerca, cominciare a digitare la parola franz kafka, o antonio tabucchi, o jose saramago, o ernest hemingway, insomma a ritrovarsi a fare affidamento su google, vedere se può aiutarlo a dargli qualche notizia di uno dei suoi scrittori preferiti, non osa ammetterlo ma la speranza è quella di trovare notizia che uno di loro possa aver pubblicato un nuovo libro, come se fosse possibile, per qualche imperscrutabile ragione che nemmeno lui vuole indagare, scrivere e pubblicare anche post-mortem, e il pensiero di una letteratura che non muore non lo abbandona, e dire che potrebbe leggere tutti i libri che ancora non ha letto dei suoi scrittori preferiti, forse lo farà, perché no, non tutti però, altrimenti al posto della nostalgia potrebbe subentrare la paura, una sconfinata paura di non avere più nulla da leggere dei suoi scrittori preferiti, e allora che fare, si chiede. No, una cosa è certa: non conviene leggere l'opera completa dello scrittore che si ama, meglio lasciarsi almeno un romanzo o una manciata di racconti da parte, per i giorni neri che tutti, presto o tardi, conosceremo, e allora non resta che fare affidamento su google, rileggere brani dei libri che più hai amato, e se proprio non riesci a resistere, sì, perché no, puoi ancora e sempre scrivere.

lunedì 30 luglio 2012

Rettitudine

L'avevano sentito tutti con le proprie orecchie, l'Assessore alle politiche industriali e allo sviluppo economico, sostenere che alla base della disaffezione della cittadinanza nei confronti della politica c'era un problema di educazione. L'Assessore si riferiva all'educazione in senso lato, come strumento per interpretare e partecipare attivamente alla vita pubblica di una città, uno strumento, a modo di vedere dell'Assessore, antiquato, sì, ma eminentemente efficace, in quanto né la scuola né la televisione hanno più la voglia e l'entusiasmo per spiegare ai ragazzi cos'è la politica e perché è giusto che ci seguano e parteggino per uno di noi. Uno dei suoi colleghi, o come si diceva un tempo compagni, sosteneva invece che alla base di tutto c'era un problema di informazione. Il che, replicava prontamente l'Assessore, è come dire la stessa cosa, visto che educare significa insegnare, e per insegnare qualcosa dobbiamo informare, cioè, come dice la parola stessa, dobbiamo dare forma all'informe dei nostri pensieri e così facendo attivare un processo di riordino mentale nella testa di chi ci ascolta, ossia il discente. Ora stai scendendo un po' troppo nei particolari, caro il mio Assessore, disse il collega. Invece no, ribattè l'Assessore, perché bisogna spaccare il capello in quattro se vogliamo riuscire poi a spiegarlo come si deve a chi ci sta di fronte. Il collega non sembrava convinto dell'asserzione dell'amico, ma preferì lasciare perdere e pensare ad altro, e così gli chiese cosa pensava di fare quella sera, se gli andava di accompagnarlo al mare, al che l'Assessore si inalberò e disse che così non andava, non poteva sviare il discorso solo perché lui era d'accordo, gli avrebbe mostrato come si educa un popolo, che venisse a casa sua, gli propose, e allora sì che avrebbe capito cos'aveva in mente per la prossima campagna elettorale e per i primi 100 giorni del proprio incarico se la cittadinanza, almeno questa volta, si fosse degnata di concedergli un'opportunità come Primo Cittadino!

Il collega, per la verità, preferiva il mare alla politica, ma non voleva dare un dispiacere al compagno e così disse che sì, accettava volentieri la proposta e che non era stata sua intenzione sviare il discorso, era solo stanco e il pensiero di un bel bagno in mare non gli dava requie, persino la notte se la sognava, una spiaggia deserta, l'acqua rinfrescante, il vento che lo asciugava e poi lo aiutava a trovare il sonno. 

un romanzo non è un romanzo

Un romanzo non è un romanzo perché in copertina campeggia la scritta romanzo e il giornalista definisce l'autore un romanziere.
 Un romanzo non è un romanzo perché la storia che leggiamo ha un inizio e una fine e personaggi con i quali finiamo per familiarizzare.
Un romanzo non  è un romanzo perché supera le cento pagine e i capitoli non hanno un titolo che li distingua l'uno dall'altro.
Un romanzo non è un romanzo perché tutti lo chiamano romanzo e lo paragonano ad altri oggetti narrativi catalogati sotto con lo stesso nome.

Un romanzo è un atto contronatura: voler raccontare tutto con la consapevolezza che tutto non è possibile dire: basti ricordare  le colonne d'Ercole del romanzo moderno, "Don Chisciotte" e "Vita e opinioni di Tristram Shandy": cos'altro sono se non un grandioso e spassoso tentativo fallito di dire tutto senza riuscire a farlo e proprio per questo rendendo l'esperimento una creatura narrativa nuova e mai fine a se stessa?
(Provare ad aprire un capitolo a caso di uno delle colonne d'Ercole del romanzo moderno e chiedersi in cosa lo distingua da un libro di racconti; oppure fare l'operazione contraria, leggendo dalla prima all'ultima pagina "I racconti di Pietroburgo" di Gogol e "Nel nostro tempo" di Hemingway e chiedersi perché non siano stati definiti romanzi).

Se i peggiori romanzi, infatti, sono proprio quelli che hanno la presunzione di raccontare un mondo compiuto e circoscritto, con un inizio e una fine e una morale intrinseca, i migliori sono quelli che vanno proprio nella direzione opposta: puntano a non dire nulla eccetto quello che mostrano, a diseducare il lettore e lasciargli intravedere una realtà a metà strada tra il sublime e lo spaventoso, tutt'altro che confortante ("L'educazione sentimentale" di Flaubert, "Il processo" di Kafka), o a dire troppo, mostrando l'inaudito, in un  una sorta di allucinato cortocircuito tra la realtà che conosciamo e la visione che ci viene filtrata dal narratore ("Viaggio al termine della notte" di Celine, "Tamburo di latta" di Grass, "Il Maestro e Margherita" di Bulgakov).

Ad ogni modo il mio romanzo preferito resta Bartlebly lo scrivano. Ricordo tutto della storia, le risate che mi provoca nelle prime pagine, i brividi di commozione che mi suscitano le ultime, il senso di spaesamento continuo che provo ogni volta che lo riprendo in mano e il senso di struggimento a lettura terminata: eppure se qualcuno mi chiedesse di quante pagine è composto, oppure che cosa rappresenta,  non saprei cosa rispondere!

Viavai - questa non è brezza ma ventilatore



D'estate, poi, a nessuno piace prendere l'autobus e andare al lavoro, eppure tocca farlo, specialmente se il cielo è di un azzurro impertinente e lungo la costa sfarfallano le bandierine di certe barche a vela che sembrano appena uscite da una cartolina della Bella Epoque, e poi, come non bastasse, tutti quelli che salgono e scendono dal bus hanno ciabatte e calzoni corti e una bella abbronzatura, e quindi, anche se non ti va, devi confessare di esserci rimasto solo tu, ormai, a portare i pantaloni lunghi e le scarpe coi calzini, ma va bene così, ti convinci che non c'è tempo migliore per stare in ufficio di quello in cui i colleghi sono assenti, i clienti smarriti, il telefono pressoché muto.   

mercoledì 4 luglio 2012

Nicola Puca (uno che passa di qui)

 Mi chiamo Nicola Puca. Sono nato il primo novembre del 1980 e per molti anni ho marinato la scuola e suonato la chitarra agli angoli delle strade con un cartello di cartone  appeso al collo che diceva: vi prego, ballate per me! Peccato che i miei concerti si tenessero di notte, e nella mia città, di notte, la gente dorme o, tutt'al più, guarda la tv o fuma una sigaretta al balcone. Suonavo di notte perché pensavo che sarebbe stato più suggestivo, e poi pensavo che, presto o tardi, qualcuno si sarebbe accorto di me e sarebbe sceso in strada a ballare e farmi i complimenti per le canzoni, le mie canzoni, sì, perché se c'è una cosa che mi ha permesso di superare l'adolescenza senza mai tirare il collo né ai professori né a mia madre, è stata la musica, o meglio, le parole che mettevo in musica e con le quali mi raccontavo delle storie, ogni settimana un po' più lunghe e complesse, finché un giorno ho deciso di lasciare la chitarra lì dov'era e provare a scrivere qualcosa senza pensare alla musica e al ritmo che ne sarebbe potuto scaturire. Le prime storie scritte senza musica erano lettere, iterminabili lettere che spedivo a ogni ragazza che mi faceva girare la testa, e funzionava, eccome se funzionava!, perché in fondo alla lettere scrivevo che io mi sarei fatto trovare il tal giorno alla tal ora nel tal posto, e ogni volta, quando io mi presentavo all'appuntamento, la ragazza era già lì, vestita di tutto punto, in una mano la mia lettera e nell'altra il mazzo di fiori che le avevo mandato qualche giorno dopo.  In quegli anni, a scuola, fingevo attenzione e buona condotta, e così facendo i professori mi lasciavano in pace, al punto da dimenticarsi di me, in maniera persino vergognosa, direi, come quando mi rimproveravano per un'assenza che non avevo fatto o una verifica che non avevo consegnato e allora io ero costretto a raccontargli, per dimostrare la mia onestà, cos'era successo a scuola quel giorno e com'era vestito il professore e quello che aveva detto e cosa era capitato di particolare al mio compagno di banco e a quello seduto davanti, finché vedevo il professore  sussultare e farmi segno con la mano di fermarmi: Va bene, va bene, hai ragione, Puca, devo essermi sbagliato, capita! E così posso affermare, con una certa sicurezza, di aver passato i primi vent'anni della mia vita a raccontare storie. Ai miei genitori, per farli tacere ogni volta che volevano mettermi in castigo; ai professori, per farli ricredere sulla mia condotta e tenere un atteggiamento più rispettoso nei mie confronti; alle ragazze, per convincerle a darmi un'opportunità e sentirmi, almeno per un giorno, il dongiovanni che mai sono stato e, credo, mai sarò; e a me stesso, per farmi compagnia quando nessuno dei miei amici aveva voglia di uscire e in tv non trovavo nemmeno un film degno di essere visto dall'inizio alla fine. Poi sono stato all'università, e dopo l'università ho insegnato italiano a stranieri, e dopo che quasi tutte le scuole nelle quali insegnavo hanno chiuso o non hanno più avuto stranieri bisognosi del mio italiano, mi sono chiuso in casa e ho cominciato a scrivere. Qualche traduzione di tanto in tanto, un po' di ripezioni e un paio di lezioni di chitarra a settimana, sono quanto mi basta per vivere senza l'aiuto di nessuno in questa soffitta nella quale riempio quaderni di storie vere e inventate, storie di un tempo lontano da me e storie di un tempo mai esistito o forse prossimo a esistere, chissà. Qualche volta trascrivo brani delle mie storie al computer e li mando a un mio amico che dice di tenere una specie di diario aperto a tutti, l'idea mi sembra buona, per me non ha nessuna differenza dove vadano a finire le mie storie, l'importante è che siano  messe in circolazione, da chi  e per chi questi non sono affari miei.  

MANUALE D'USO - LA TESSERA ELETTORALE (R.A.I.L.)




LA TESSERA ELETTORALE



Riporre la tessera elettorale (d'ora in poi TESSERA), unitamente a un documento d'identificazione in corso di validità, nella tasca posteriore dei pantaloni o, a seconda dell'abbigliamento, in uno uno zaino, un borsello o una borsetta, preferibilmente non troppo vistosi, assicurandosi che gli stessi siano muniti di cerniera o, meglio ancora, di cerniera e lucchetto.





 


  1. Camminare con fare vigile e guardingo: agli angoli delle strade, nascosti dietro i cassonetti dell'immondizia o nei pressi dei chioschi di giornali, loschi individui in doppiopetto e occhiali da sole stanno aspettando il momento opportuno per avvicinarvi con una richiesta qualunque per scipparvi la TESSERA. Per prevenire tali atti, arrotolare la TESSERA fino a renderla in tutto e per tutto simile a un manganello.
    Se l'occasione può fare il ladro, la prudenza può farvi sbirro: non abbiate timore di menare una manganellata in mezzo alle gambe del doppiopetto con gli occhiali scuri che osi avvicinarvi con fare mellifluo e accomodante, perché la tornata elettorale è l'unica occasione che avete per esprimere un'opinione, e dunque, ricordatevi: nessuno ha diritto a decidere al posto vostro!
2. Prima di raggiungere il collegio elettorale, fermatevi a contemplare il   muraglione di bellimbusti in doppiopetto, cravatta, farfallino, camicia nera, camicia rossa, camicia fantasia che annunciano all'intera cittadinanza i buoni propositi per il vostro futuro. Ecco un esempio degli illuminanti messaggi che potreste trovare sulla strada verso il voto: “No euro!”, “Sì, Italia!”, “Insieme per la città!”, “Per la tua città!”, “Una città per tutti!”, “Basta casta!”, “Mandiamoli a casa tutti!”, “Padroni a casa nostra!”, “Questa è la mia casa!”, “Pulizia e decoro!”, “Igiene, ordine e lavoro!”, “Io credo!”
A questo punto, passate a esaminare lo slogan in rapporto con la faccia, il busto o il mezzo busto del candidato sindaco, e chiedetevi a chi vorreste assomigliare di più. Ognuno di voi coltiva sogni irrealizzabili, e questo è il vostro momento: scegliete il vostro candidato e assumerete una nuova identità che vi accompagnerà per i prossimi cinque anni!
  1. Raggiungere il collegio elettorale al quale siete stati assegnati è facile. Il nome della circoscrizione o regione e del suo corrispondente collegio sono indicati nella pagina CIRCOSCRIZIONI E COLLEGI ELETTORALI, mentre l'esatta ubicazione della sezione sono indicati nella pagina denominata TESSERA ELETTORALE, sotto i vostri dati anagrafici, alla voce INDIRIZZO DELLA SEZIONE e ISCRITTO NELLA LISTA ELETTORALE DELLA SEZIONE N.
    Attenzione a non sbagliare sezione: dall'apertura del seggio elettorale avete solo 48 ore di tempo per recarvi presso il vostro collegio elettorale e indicare con una preferenza a quale persona sognate di assomigliare al punto da volergli affidare il potere di decidere, per i prossimi cinque anni, quello che è giusto e sbagliato per voi senza nemmeno avervi prima consultato!
  1. Rispettare la coda senza arrecare disturbo agli elettori con inutili discussioni sul tempo o sulle proprie simpatie in merito agli slogan e ai busti e mezzibusti di cui vi siete riempiti gli occhi. Per evitare spiacevoli attriti con chi vi precede o segue in coda è utile avere con sé uno o più paia di tappini per le orecchie, concentrarsi sul nome del candidato prescelto e non agitarsi troppo.
    Quando l'elettore che vi precede avrà ritirato i documenti richiesti dagli scrutinatori e avrà varcato la porta d'ingresso del seggio elettorale, potrete ritenervi autorizzati a entrare nella stanza e procedere alle operazioni richieste per esercitare il vostro diritto di voto. Uno scrutinatore vi consegnerà lapis copiativo e scheda elettorale, indicandovi con ampio gesto delle braccia e voce stentorea il numero della cabina elettorale presso la quale recarvi. Non profferite parola né fate gesti equivoci, pena intervento delle forze dell'ordine e sospensione temporanea del vostro diritto di voto.
  1. Nella cabina elettorale siete soli con il lapis copiativo e la scheda elettorale. Non fate confusione: impugnate il lapis in una mano e con l'altra disponete la scheda elettorale davanti a voi. Non lasciatevi prendere dalla fretta qualora non riusciste a trovare subito il nome e il simbolo del candidato prescelto: potete trovarlo solo con un po' di fortuna e sangue freddo, a non tutti riesce, fatevene una ragione. La cosa più importante è che non vi attardiate troppo nella cabina: il presidente di seggio potrebbe venire a chiedervene spiegazione, per l'imbarazzo vi trovereste senza una valida giustificazione e, in men che non si dica, potreste ritrovarvi sulle pagine di tutti i quotidiani locali, una barzelletta vivente, un monito al tempismo e al decisionismo applicato alla politica.
    Perciò è bene avere le idee chiare, prima di entrare nella cabina, oppure non averle affatto e compiere il proprio dovere tracciando una X su uno dei tanti simboli e nominativi presenti sulla scheda elettorale: dare il proprio contributo e scegliere qualcuno che possa farvi sognare il sogno di detenere il potere è un'esperienza troppo esaltante per non provarla fino in fondo!
Quando a distanza di giorni sarà finalmente noto l'esito delle elezioni, non chiedetevi quanto il vostro voto possa essere stato determinante e se il candidato scelto avrà un pensiero per voi. Ciò che più conta è questo: decidere avete deciso, ora lasciate che siano gli altri, i vincitori, a continuare a farvi sognare il sogno di una politica che riguarda tutti e coinvolge tutti, a condizione di avere una tessera elettorale e un documento d'identificazione in corso di validità.
                      R.A.I.L.
                      Real Absurda Iconolastica Letteratura
























Knock-out


Soriano bada al sodo. Destro, sinistro, destro, sinistro, dritto: knock-out! Cortazar diceva che i racconti vincono al knock-out, e come è vero, mi dico, ogni volta che mi imbatto in qualche scrittore che sa far viaggiare le storie sui binari della rapidità e incisività, pochi per la verità, per questo è sempre bene tornare a chi, il racconto moderno, lo ha inventato, ossia Kafka, Hemingway e Borges, la triade che è andata a lezione dei padri fondatori del racconto classico (Cechov, Gogol, Maupassant e Hoffmann) e ha saputo ripartire da dove la lezione era stata interrotta. Dopo H.B.K. il racconto ha continuato la sua storia vivendo di alterne fortune,  condizionato dall'editoria e dal pubblico del posto, basti pensare agli Stati Uniti o a molti paesi latino-americani, dove il racconto non ha mai sofferto del  complesso di inferiorità nei confronti del romanzo, mentre altrove, per esempio in Italia, nonostante una tradizione di primissimo livello (da Boccaccio a Buzzati, passando per Pirandello, Pavese e Fenoglio), un libro di racconti viene sempre vissuto come un oggetto anomalo, inclassificabile, inattuale e, quindi, ai limiti dell'incomprensibile. Questo per dire che leggere Soriano fa bene, perché Soriano ti porta sul ring e l'incontro finisce prima ancora che tu possa rendertene conto. Saranno i dialoghi al fulmicotone, la rapidità con la quale passa da una scena all'altra, gli attacchi che ti lasciano senza fiato ("Hai degli infiltrati", disse il commissario. "Degli infiltrati? Qui lavora soltanto Mateo e sono ventiquattro anni che è nella delegazione" "E' un infiltrato. Dammi retta, Ignacio, sbattilo fuori perché ci saranno casini.") e dai quali non puoi sottrarti, sarà tutto questo e molto altro (poca psicologia, sarebbe piaciuto a Kafka, e una capacità di mostrare solo lo stretto necessario, come predicava Hemingway), ma leggere Soriano fa bene per capire cos'è un racconto  e in che modo uno scrittore possa riuscire a dare il meglio di sè con quella che è la creatura letteraria più anomala che esista, il cosiddetto racconto lungo, che solo in rari casi riesce a mantenere tutte le qualità tipiche del racconto senza snaturarsi o perdersi per strada. In "Quartieri d'inverno" c'è   maestria, sfrontatezza, prepotenza e levità Ogni capitolo è uno scatto repentino, una freccia scagliata in cielo, un salto in alto: il mio preferito è il capitolo tredici, perché lì Soriano riesce a fondere comicità e struggimento in una cosa sola, un capitolo che si potrebbe isolare e inserire in una ipotetica "antologia del racconto d'amore folle".