mercoledì 4 luglio 2012

Nicola Puca (uno che passa di qui)

 Mi chiamo Nicola Puca. Sono nato il primo novembre del 1980 e per molti anni ho marinato la scuola e suonato la chitarra agli angoli delle strade con un cartello di cartone  appeso al collo che diceva: vi prego, ballate per me! Peccato che i miei concerti si tenessero di notte, e nella mia città, di notte, la gente dorme o, tutt'al più, guarda la tv o fuma una sigaretta al balcone. Suonavo di notte perché pensavo che sarebbe stato più suggestivo, e poi pensavo che, presto o tardi, qualcuno si sarebbe accorto di me e sarebbe sceso in strada a ballare e farmi i complimenti per le canzoni, le mie canzoni, sì, perché se c'è una cosa che mi ha permesso di superare l'adolescenza senza mai tirare il collo né ai professori né a mia madre, è stata la musica, o meglio, le parole che mettevo in musica e con le quali mi raccontavo delle storie, ogni settimana un po' più lunghe e complesse, finché un giorno ho deciso di lasciare la chitarra lì dov'era e provare a scrivere qualcosa senza pensare alla musica e al ritmo che ne sarebbe potuto scaturire. Le prime storie scritte senza musica erano lettere, iterminabili lettere che spedivo a ogni ragazza che mi faceva girare la testa, e funzionava, eccome se funzionava!, perché in fondo alla lettere scrivevo che io mi sarei fatto trovare il tal giorno alla tal ora nel tal posto, e ogni volta, quando io mi presentavo all'appuntamento, la ragazza era già lì, vestita di tutto punto, in una mano la mia lettera e nell'altra il mazzo di fiori che le avevo mandato qualche giorno dopo.  In quegli anni, a scuola, fingevo attenzione e buona condotta, e così facendo i professori mi lasciavano in pace, al punto da dimenticarsi di me, in maniera persino vergognosa, direi, come quando mi rimproveravano per un'assenza che non avevo fatto o una verifica che non avevo consegnato e allora io ero costretto a raccontargli, per dimostrare la mia onestà, cos'era successo a scuola quel giorno e com'era vestito il professore e quello che aveva detto e cosa era capitato di particolare al mio compagno di banco e a quello seduto davanti, finché vedevo il professore  sussultare e farmi segno con la mano di fermarmi: Va bene, va bene, hai ragione, Puca, devo essermi sbagliato, capita! E così posso affermare, con una certa sicurezza, di aver passato i primi vent'anni della mia vita a raccontare storie. Ai miei genitori, per farli tacere ogni volta che volevano mettermi in castigo; ai professori, per farli ricredere sulla mia condotta e tenere un atteggiamento più rispettoso nei mie confronti; alle ragazze, per convincerle a darmi un'opportunità e sentirmi, almeno per un giorno, il dongiovanni che mai sono stato e, credo, mai sarò; e a me stesso, per farmi compagnia quando nessuno dei miei amici aveva voglia di uscire e in tv non trovavo nemmeno un film degno di essere visto dall'inizio alla fine. Poi sono stato all'università, e dopo l'università ho insegnato italiano a stranieri, e dopo che quasi tutte le scuole nelle quali insegnavo hanno chiuso o non hanno più avuto stranieri bisognosi del mio italiano, mi sono chiuso in casa e ho cominciato a scrivere. Qualche traduzione di tanto in tanto, un po' di ripezioni e un paio di lezioni di chitarra a settimana, sono quanto mi basta per vivere senza l'aiuto di nessuno in questa soffitta nella quale riempio quaderni di storie vere e inventate, storie di un tempo lontano da me e storie di un tempo mai esistito o forse prossimo a esistere, chissà. Qualche volta trascrivo brani delle mie storie al computer e li mando a un mio amico che dice di tenere una specie di diario aperto a tutti, l'idea mi sembra buona, per me non ha nessuna differenza dove vadano a finire le mie storie, l'importante è che siano  messe in circolazione, da chi  e per chi questi non sono affari miei.  

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