mercoledì 20 giugno 2012

La morte di Carlos Gardel

La sensazione è quella di trovarsi in mezzo a una piazza spazzata dal vento, una sterminata piazza nella quale succede di tutto, c'è un gran trambusto, stormire di fronde, rumore di passi, clacson e voci che si sovrappongono, molte voci, alcune in presa diretta, altre che appartegono a un passato più o meno remoto, e poi un affastellarsi continuo di oggetti davanti agli occhi dei protagonisti - oggetti più o meno comuni, come il mazzo di carte del nonno o il rumore degli alberi fuori dalla finestra o la boccetta di profumo del padre di Alvaro -, e oltre agli oggetti ci sono i pensieri dei personaggi, pensieri sempre in balia degli eventi, e quindi, proprio per questo, un ininterrotto andirivieni  di ricordi sensazioni desideri rimpianti, impossibile volerli trattenere, nulla in questo libro puoi trattenere e ingabbiare, tanto meno la voce dei protagonisti, perché si tratta di un libro in cui sono tutti protagonisti e nessuno è comprimario, sì, qualcuno più presente degli altri c'è, ma nulla di rilevante, ed è proprio questo a rendere questo libro una sorta di fantasmagoria perenne, il fatto di scaraventare il lettore dentro un turbinio di storie che definire romanzo appare una forzatura, anche dopo averne letto un centinaio di pagine la sensazione è quella di trovarsi tra le mani  una pirotecnia narrativa che comincia con un nano che parla di calcio per proseguire con un vecchio alla prese con il rimorso e con un uomo che commette gli stessi errori che il padre aveva commesso con lui. Voltare pagina è un azzardo, come ritrovarsi sul ciglio di un burrone e lasciarsi scivolare giù: la corsa può durare minuti, oppure ore, il bello è che la corsa non è mai in verticale, da un punto A al punto B, vita morte e miracoli di taldeitali, ma in orizzontale, come un vortice gentile che ti prende e ti fa viaggiare a lungo con sè. 

giovedì 14 giugno 2012

Precipitare dentro un vuoto chiamato nulla (fingere che tutto vada bene)


"Il lavoro stesso è ogni giorno di più a rischio..."
E' difficile, ammettiamolo, concentrarsi sul lavoro, mostrarsi aperti, disponibili e propositivi con i colleghi e con i clienti, quando il lavoro stesso è ogni giorno di più a rischio, quando le tue funzioni, quelle che un giorno ti facevano identificare con il tuo lavoro e ti permettevano di parlarne quando qualcuno te lo chiedeva, le mansioni che trovi ancora scritte sul mansionario ma che nella pratica non ci sono più, quando il lavoro, l'unico lavoro serio e pagato che hai fatto nella tua vita, assomiglia ogni giorno di più a un fantasma.  In questi casi bisogna tenere duro, si dice, afferrarsi a quel poco che resta del lavoro di un tempo e convincersi che tutto vada bene e che un giorno, presto o tardi, tutto cambierà, in un verso o nell'altro, tutto cambierà e la tua vita prenderà una forma che speri possa essere un po' più definita di quanto sia ora. Se fossi un operaio, ti direbbero di restare alla catena di montaggio ad accendere e spegnere le macchine in attesa che i Dirigenti decidano cosa vogliano fare della Ditta. Purtroppo, però, questa non è una ditta, qui si erogano servizi, e tu stesso, lo sai, costituisci un servizio per la struttura, e come tale devi essere presente,  altrimenti la qualità generale del servizio decade, e con quella la credibilità e l'operatività stessa di tutti gli altri tuoi colleghi. Pochi colleghi, tanti problemi, dici, ma nessuno sembra prenderti sul serio, c'è così tanto da fare che nessuno dei tuoi colleghi, così pochi da poterli contare tutti sulle dita di una sola mano, nessuno di loro, dicevamo, può dedicarti più di cinque minuti, il tempo per andare e tornare dal distributore automatico e sfumacchiarsi una sigaretta. I tuoi colleghi parlano di lavoro, tu taci e aspetti che loro abbiano finito di parlare per rientrare in ufficio e proseguire, tra una pratica e l'altra, nella ricerca di un nuovo lavoro, qualunque esso sia, purché ti permetta di metterti in salvo prima che il Presidente ti comunichi la necessaria interruzione del rapporto di lavoro per cause indipendenti dalla sua e dalla tua volontà. Potresti licenziarti, ti aiuterebbe a sentirti protagonista dopo anni passati a vivere all'ombra dei colleghi, protagonista per pochi minuti, forse, il tempo di consegnare la lettera di dimissioni e salutare i colleghi. Il problema, però, è un altro, e tu lo sai bene. Licenziarsi significa non prendere un centesimo finché non avrai un lavoro, mentre essere licenziati è tutt'altra musica, più traumatico, forse, dal punto di vista psicologico ma molto meno da quello remunerativo, visto che, al momento, esiste ancora una forma di indennità di disoccupazione per coloro che hanno perso il lavoro. E siccome tu il lavoro ce l'hai, e puoi perderlo, sì, e con quello usufruire di uno di quegli ammortizzatori sociali di cui ha sempre sentito parlare,  licenziarti, al contrario, significherebbe fare un salto nel vuoto, significherebbe precipitare rischiando di farti male senza nessuno che possa aiutarti. Qualche volta pensi che finirai per smettere di andare al lavoro per noia, o depressione, o qualche strano male legato a quella costante sensazione di prigionia che provi ogni volta che metti piede nell'ufficio e devi accendere il computer.   








martedì 12 giugno 2012

Un padre



"E' venuto qui per sapere chi è suo figlio..."
 
Il padre ha la faccia scavata e i capelli corti e bianchi. Gli dico di sedersi, ma sembra non sentirmi, ha fretta di parlare e dirmi tutto quello che lo ha portato a venire qui, all'università, per sapere quanti esami ha superato suo figlio, con che voto e quando, insomma, per quanto possa sembrare folle, così dice, è venuto qui per sapere chi è suo figlio e cosa deve fare per riuscire a dormire la notte senza avere gli incubi. Sarebbe meglio non averli, provo a dire, ma il padre ribatte che lui è una persona senza scheletri nell'armadio, con un passato da centometrista alle universiadi e tutta una vita passata a lavorare e accudire la madre malata. Ma non è di questo che voglio parlarle, mi dice il padre, la questione è che mio figlio, ora, mentre io sono qui a parlarle di me e delle mie preoccupazioni e della conseguente insonnia che non mi dà pace da più di un mese, mio figlio, dicevo, è a letto a dormire. Capisce? Ora lei penserà che mio figlio è uno di quelli che fa tardi la sera, a ballare in discoteca o al pub con gli amici, e forse, se devo dirla tutta, anch'io vorrei che fosse così, perché sarebbe tutto più semplice, più comprensibile, più logico, invece no... Mio figlio, dice il padre, passa le serate al telefono con la fidanzata, chiuso in camera, attacca a parlare alle nove, nove e mezzo, e vanno avanti a parlare, o forse dovrei dire a dibattere, per due, tre ore, perchè quando io vado a letto, tra le undici e mezzanotte, lo trovo a letto con il cellulare sul cuscino e la tv accesa a volume bassissimo. In quei momenti, sa, vorrei tanto prenderlo tra le mie braccia, scuoterlo e chiedergli cosa ha fatto tutto il giorno e cosa pensa pensa di lui quella sua fidanzata che ancora non si è degnato di farmi conoscere, ma poi desisto, spengo la tv e chiudo la porta e rimando tutto al giorno successivo, anche se so che così non otterrò nulla, e che nulla cambierà finché non sarò io, questa volta, a mettere le cose in chiaro e obbligare mio figlio a dirmi tutto e capire in che modo la sua inettitudine sia una conseguenza mia e di mia moglie. Ma questa è un'altra storia, mi dice il padre, e ora è meglio che non le faccia perdere altro tempo e che me ne vada, ho già capito che lei non può o non vuole aiutarmi, e forse, lasci che glielo dica, è meglio così, io volevo venire quassù per sapere chi è mio figlio, lei mi dice che non ne sa nulla e che anche se lo sapesse non potrebbe dirmelo per non violare la legge, e allora io le dico che questo mi è bastato, sapere che qui non è mai venuto e che anche se fosse venuto per lei sarebbe indifferente quanto la mia molesta presenza in questo momento. Il padre uscì sbattendo la porta, non feci in tempo a raggiungerlo in strada che lui era già salito in sella alla bicicletta e stava andando contromano, dritto contro una macchina che in quel momento sfrecciava davanti ai nostri uffici, chiusi gli occhi e lo stridore dei freni fu interminabile, dura ancora adesso, ogni volta che qualcuno mi incontra per strada e mi chiede cosa aspetto a farmi una famiglia e diventare padre.

lunedì 11 giugno 2012

La mia vita di uomo

Si sa, Philip Roth è uno scrittore viscerale. Scrive delle viscere dei propri personaggi, e per farlo lascia schioccare la frusta: sembra di sentirla muovere l'aria ogni volta che una frase prende velocità; allora cominci a seguirla, gli occhi le vanno dietro con fare servile e l'impressione è quella di assistere, da un momento all'altro, a un formidabile schianto. Uno schianto tanto stilistico quanto concettuale. Una storia che possa disintegrarsi davanti ai tuoi occhi. Ma quello che capita è proprio il contrario: nel momento stesso in cui sei sicuro che la prosa finirà per sfracellarsi contro un muro di indicibilità,  lì Philip Roth dà una sterzata e la narrazione, improvvisamente, diventa qualcos'altro, come un pugno sferrato a una tale velocità da non riuscire a vederlo ma solo ad avvertirlo, come una palla da tennis che ti colpisce allo sterno, ti mozza il fiato e contro la quale tu non puoi fare nulla, perché c'era, sì, ma forse anche no, perché ora che la cerchi non riesci a trovarla da nessuna parte, c'è da diventare pazzi, meglio rinunciare. Capitano spesso momenti simili, ogni volta che si decide di immergersi in un libro di Philip Roth.  E "La mia vita di uomo" è una trottola che si avvita su se stessa senza mai perdere velocità, equilibrio, vigore, bellezza. Se dovessi riassumerla in poche parole direi che è la storia di un uomo ossessionato dalla letteratura  che finisce lui stesso per essere il protagonista di innumerevoli vicende romanzesche e dalle quali sa che non potrà mai liberarsi, perché la letteratura non conosce limiti mentre la vita, quella vita che conosce così bene per averla letta nelle pagine dei grandi scrittori dell'ottocento, la prosaica, banale e faticosissima vita di tutti i giorni, finisce per essere materiale letterario, più o meno buono, l'ardua sentenza a chi si cimenterà nella lettura.

venerdì 8 giugno 2012

Forse, un giorno

 Forse, un giorno. Oggi no. Domani? Chissà! Un giorno, però, sì... un giorno troverò il tempo per farlo, e lo farò come si deve, e se nessuno mi fermerà, allora finalmente saprò cosa volevo tanto fare da non riuscire nemmeno a più a chiudere occhio la notte al solo pensiero di non riuscire a farlo per tempo. 

Presidente

Il Presidente passò tutta la mattina ad ascoltare le osservazioni dei propri dipendenti. Li accolse uno ad uno nel proprio ufficio, e senza profferire verbo li congedò con la promessa di ponderare le richieste e fargli pervenire una comunicazione scritta in merito alle mansioni che avrebbero dovuto svolgere. Poi chiuse l'ufficio, andò in bagno e lì vi rimase fino al mattino dopo.
Nessuno seppe mai nulla di questa strana vicenda fino al giorno della sua morte, quando uno dei figli, il maggiore, lesse l'agenda del padre, quella dell'ultimo anno, trovando una sola pagina bianca, quella corrispondente alla notte che passò lontano da casa e della quale non volle mai parlare. 

giovedì 7 giugno 2012

Austerità



"Una buona pratica per capire l'economia..."

Una buona pratica per capire l'economia, pensò, è quella di guardarsi in casa, fare due conti e tirare le somme. Una pratica banale, forse, ma efficace, se consideriamo che l'espressione "taglio del debito pubblico", di cui tanto sentiva parlare in tv e alla radio, era qualcosa che lo riguardava in prima persona, e non poco, visto che dall'inizio dell'anno il conto in banca, già dalla metà del mese, era in rosso, e se un debito cominciava ad avvertirlo, era quello verso il proprio gruzzoletto, dal quale attingeva sempre più spesso, almeno ogni due settimane, un gruzzoletto con il quale sperava di comprare un paio di mobili il giorno in cui avesse comprato casa, una cifra irrisoria, a dirla tutta, e proprio per questo ancora più vulnerabile e facilmente estinguibile. Come difenderlo, allora? La prima cosa da fare, era tagliare gli sprechi. Più o meno quello che tutti gli italiani, le tv e i giornali reclamavano a gran voce nei confronti dei politici da anni e che finora non aveva ancora prodotto risultati concreti sul piatto della bilancia pubblica. Gli sprechi c'erano, e un immediato cambio di regime, sì, forse avrebbe portato una salutare "boccata d'ossigeno" (altra espressione presa in prestito dai giornalisti) al bilancio mensile, anche se solo quello, lo sapeva, non sarebbe bastato a impedirgli un "dissanguamento del tesoretto" e un rapida discesa verso uno stile di vita più gramo del solito. Eliminati gli sprechi, c'era ancora molto lavoro da fare. Le voci del bilancio lo guardavano con fare minaccioso: l'affitto non si poteva toccare, e così per le bollette, se consideriamo che il riscaldamento era centralizzato, l'acqua e la luce venivano usate con parsimonia, e anche il gas,  era usato solo per cucinare e nulla più. Restavano le spese per il vitto, da contenere nei limiti del necessario, e i prelievi al bancomat, da regolamentare nella maniera più rigida possibile, a costo di qualche rinuncia, malumore o broncio che sia. A cominciare da subito. A lui la responsabilità del bilancio, una rogna che avrebbe voluto evitare, che forse poteva ancora evitare se la moglie avesse trovato un lavoro, ma che certamente lo riguardava in prima persona, visto che era lui a detenere il bancomat, lui a fornire alla moglie i soldi per fare la spesa, lui a dire sempre che dovevano fare attenzione senza riporne lui stessa a sufficienza al momento di andare al bancomat a prelevare perché il portafoglio s'era alleggerito (quante volte, negli ultimi mesi, aveva dovuto dire alla verduraia o al giornalaio: "Scusi, ma sono rimasto senza contanti! Corro al bancomat e torno!"), senza fare troppi calcoli, senza troppi pensieri, senza mai considerare che l'espressione austerità, presto o tardi, avrebbe finito per coinvolgerlo e cambiargli la vita.

martedì 5 giugno 2012

Maltempo


Era uscito di casa in camicia, senza nemmeno fare colazione o lavarsi la faccia, scapicollandosi giù per le scale senza mai perdere di vista l'orologio, quelle lancette non la smettevano di correre, se riusciva a prendere subito l'autobus faceva a tempo a fermarsi in un qualche bar per un caffé, altrimenti avrebbe dovuto vedere cosa gli riservava la distributrice automatica dell'ufficio. Ma il problema, ora, era di tutt'altra natura. Veniva già una pioggia battente, e lui non aveva tempo per tornare indietro a mettersi una giacca, l'unica cosa che poteva fare era quella di prendere l'ombrello e con quello ripararsi come poteva fino alla pensilina del bus. Arrivò in strada e si vide passare davanti l'autobus, imprecò contro la pioggia e il vento, valutò se rifugiarsi in un bar, andare dritto alla fermata oppure passare dall'edicola per prendere il giornale. Il bar, no, quello era meglio lasciarlo perdere, visto che il prossimo autobus era l'ultimo per arrivare in tempo al lavoro, però il giornale poteva prenderlo, e così arrivò alla pensilina con il giornale sotto braccio e la camicia bagnata e la testa piena di pensieri nefasti, primo fra tutti il pensiero di qualche altro malanno che lo avrebbe costretto a casa per chissà quanti giorni, un'altra giustificazione da fornire al lavoro, altre giornate da passare sdraiato a letto o sul divano senza la minima voglia di alzare un dito o fare qualcosa di piacevole, eccetto dormire o guardare le nuvole in cielo. L'autobus era affollato, tutti avevano fretta, come se la pioggia potesse appesantire i movimenti delle persone e delle macchine e rendere la vita stessa un peso da scrollarsi di dosso prima di restarne schiacciati sotto.
Il resto della giornata passò sotto il segno dell'emicrania e del mal di stomaco, ogni occasione era buona per andare in bagno, liberarsi l'intestino, lavarsi la faccia e darsi un contegno più presentabile. Le ore non passavano mai, guardare lo schermo del pc gli provocava nausea, e anche gli occhi facevano fatica a restare aperti, e allora guardava l'orologio e si convinceva che presto sarebbe stato a casa, tempo di scendere la scalinata e salire in autobus e sarebbe arrivato a casa, si sarebbe rifugiato in camera da letto, la serranda abbassata, forse avrebbe dormito, forse no, ad ogni modo il silenzio, il buio e l'immobilità gli avrebbero fatto bene, presto tutto sarebbe tornato al suo posto, la miglior medicina è il tempo, si ripeteva sempre in questi casi, chiudi gli occhi, riposati, tutto passa, aspetta e vedrai.